Quando la realtà supera l’immaginazione. Si ritorna in classe senza se e senza ma

di Silvia D'Autilia

Nell’escalation di misure che al ritmo di un decreto a settimana sta caratterizzando l’esecutivo di Mario Draghi, si apre il 2022 con una nuova ulteriore stretta per frenare il tasso di positività, ormai arrivato al 22%. Già dalle indiscrezioni dei giorni precedenti i riflettori erano tutti puntati sulla scuola e sul ritorno in presenza dato per “assolutamente certo” del governo, nonostante le perplessità dei territori.

Il decreto in effetti non ha mancato le promesse: il 10 gennaio tutti in classe con regole anticontagio diversificate a seconda dell’ordine e del grado. Nella fattispecie, se per la materna e la primaria si tratta di valutare il numero di positivi prima di stabilire lo stop alle attività; per la secondaria la realtà supera l’immaginazione, sia in termini logistici che educativi, didattici e pedagogici: con più di un positivo, infatti, gli studenti saranno letteralmente divisi tra chi ha portato a termine il ciclo vaccinale e chi no; i primi potranno continuare a stare in presenza, i secondi dovranno iniziare a fare lezione dietro lo schermo.

Se non bastasse il disagio logistico di preparare lezioni calibrate contemporaneamente per un pubblico on line e uno fisicamente presente, il tasto più dolente ha a che fare con il drammatico effetto discriminatorio che si verrebbe a creare, in contraddizione con tutti i capisaldi di partecipazione e inclusione di cui la scuola ama tanto fregiarsi. E chi deve materialmente avviare l’iter? Naturalmente i singoli docenti direttamente lanciati sul campo di battaglia ad applicare misure nelle quali si fatica sempre più a riconoscersi.

Ma la strategia non è nuova. Di decreto in decreto cambiano solo i contenuti. Resta costante invece la deresponsabilizzazione centrale, lasciando che siano i singoli contesti sociali e territoriali a sbrogliare la matassa nel delirante allestimento di tanti piccoli palcoscenici di controllati e controllori. Era già successo con l’introduzione del Green Pass sul posto di lavoro lo scorso 15 ottobre. Il Governo stabilisce la norma e poi abdica di fatto alla sua attuazione delegando questo compito al datore di lavoro stesso, che diventa pro tempore anche ispettore di QRcode, della loro validità o non-validità con annesse conseguenze.

Così anche in questo caso. Il contraccolpo che attende i ragazzi ancora sprovvisti di siero è – in barba ad ogni ormai più minima ombra di privacy – l’isolamento scolastico domestico. Una misura – come in tutte quelle varate col martellante fine di santificare il vaccino – in cui è impossibile non leggere una valenza squisitamente “punitiva”, e ovviamente non tanto nei confronti dei ragazzi, quanto soprattutto dei genitori, che per i loro dubbi ed esitazioni ricevono le dovute e corrisposte mortificazioni.

In contestazione di queste misure, è stata immediatamente avviata una raccolta firme di più di 2000 dirigenti scolastici preoccupati per la scarsa praticabilità delle norme e richiedenti una temporanea sospensione delle lezioni in presenza per almeno due settimane. Le motivazioni hanno sia a che fare con l’alto numero di contagi che in queste settimane sta registrando il Paese, sia con la concreta indisponibilità di risorse umane tra personale Ata e docenti che, o per effetto delle sospensioni derivanti dall’obbligo vaccinale, o per effetto delle quarantene, non possono garantire un continuativo servizio.

La risposta del Governo non ha tardato ad arrivare: “nessuna deroga e nessuno slittamento della riapertura, si ritorna tutti in classe”. E d’altronde non avrebbe potuto andare diversamente: accogliere le richieste di chi concretamente dovrà scontrarsi con la realtà avrebbe significato incassare ed ammettere tutto il fallimento di una gestione del virus che invece è molto meglio nascondere come la polvere sotto il tappeto e dire alle telecamere che è tutto perfettamente sotto controllo.

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