Venezuela, carnevale di festa e riflessioni sulla questione ucraina e non solo

28 Febbraio 2022 18:20 Geraldina Colotti

In tutto il Venezuela, fino a martedì prossimo si festeggia il carnevale. Un carnevale “biosicuro”, nel rispetto delle norme anti-covid, ampiamente assunte dalla popolazione in base al principio di co-responsabilità che anima la costituzione bolivariana. Nonostante il silenzio o le menzogne dei media occidentali, il Venezuela ha fatto assai bene contro la pandemia. E non sta comunque abbassando la guardia di fronte alla diffusione delle varianti che, però, non sortiscono effetti letali come nei paesi capitalisti diretti da governi “negazionisti” come quello di Bolsonaro in Brasile.

Lo si è potuto fare per il concorso di diversi fattori: in primo luogo le precoci misure di prevenzione del presidente Maduro, che ha imposto alle prime avvisaglie un lockdown razionale. In secondo luogo per l’avvio di una campagna di vaccinazione iniziata con la partecipazione volontaria all’ultima fase di sperimentazione del vaccino russo e di quello cubano, continuata poi grazie all’aiuto dei governi amici, a cominciare dalla Cina, che hanno consentito di superare il blocco economico-finanziario e le trappole del “sistema-Covax”. Ora la quasi totalità della popolazione è vaccinata e va per la terza e quarta dose, a cominciare dai bambini di due anni e anche dalle donne incinte che non presentino particolari patologie.

La campagna di vaccinazione è obbligatoria e vige anche qui quello che viene chiamato “il semaforo”, ovvero l’introduzione di un codice “Qr” che consente di leggere la condizione di salute della persona in base alle informazioni del sistema sanitario nazionale. La differenza sta, come sempre, nella co-responsabilità, nel consenso della popolazione, cosciente di non essere composta da monadi separate dal contesto, ma da esseri sociale. Certo, anche qui non sono mancate le azioni di sabotaggio compiute dalle componenti più reazionarie delle chiese evangeliche e dalla destra “trumpista”, che hanno provocato impennate nella diffusione del virus, ma alla fine sono state contenute.

E dunque il carnevale, ma anche l’impegno politico, in un paese che considera principio fondante della sua costituzione “il raggiungimento del massimo di felicità possibile per il popolo”. Il suono dei tamburi si mischia così a quello del ricordo delle vittime del 27 febbraio 1989 e al dibattito sulle ragioni che hanno provocato l’esplosione sociale detta “il Caracazo”. Ogni anno è un’occasione ulteriore per allontanare la prospettiva di un ritorno ai meccanismi della IV repubblica.

Un sistema che ha governato in Venezuela dalla caduta del dittatore Marco Pérez Jimenez (1958) in base al “patto di Puntofijo”, ovvero alla spartizione del potere tra la coalizione di centro-destra e quella di centro-sinistra, con l’esclusione dei comunisti e delle forze di alternativa. Un contesto voluto dagli Stati Uniti, decisi a mantenere il Venezuela fuori dall’orbita sovietica contenendone sia le guerriglie guevariste che, successivamente (dopo la ribellione civico-militare del 1992), l’innesco della sinistra radicale con il bolivarianismo di Hugo Chávez, che si rivelerà vincente.

Le proteste iniziarono sotto il governo di centro-sinistra di Carlos Andrés Pérez (detto Cap) che aveva accettato di applicare i diktat delle grandi istituzioni internazionali. Tutto cominciò con l’aumento del trasporto pubblico, da sempre una misura impopolare, che però funzionò allora da detonante per la rabbia accumulata, nella crisi più generale di quel sistema di potere. Il presidente ordinò di sparare sulla folla, provocando oltre 3.000 morti, molti dei quali riesumati dalle fosse comuni dopo la vittoria di Chávez, nel dicembre del 1998.

È dal ricordo del Caracazo e dal presente di un popolo in resistenza contro i continui attacchi dell’imperialismo Usa e dei suoi vassalli, che si guarda in questi giorni agli avvenimenti in corso in Ucraina. Qui, non ci sono tentennamenti, ma campi contrapposti in cui prendere posizione, facendo valere il consiglio di Fidel Castro a un compagno che non riusciva a orientarsi nel contesto internazionale: guardare dove si posiziona l’imperialismo e schierarsi dal lato opposto. Cuba, Venezuela e i paesi dell’Alba, fautori di quella “diplomazia di pace” che ha come principio base la non ingerenza negli affari interni dei paesi ma anche una diversa soluzione dei conflitti, considerano la Nato e le mire egemoniche Usa il principale ostacolo alla ridefinizione di un mondo multicentrico e multipolare basato su relazioni non asimmetriche.

“Il consolidamento di un mondo composto da vari poli di potere – ha scritto l’ex ministro degli Esteri, Jorge Arreaza – deve produrre un bilancio positivo, quello che il Libertador Simon Bolivar definiva l’equilibrio dell’universo. Un processo – ha aggiunto – che non sarà affatto esente da contraddizioni, provocazioni e conflitti. La diplomazia dev’essere il punto di equilibrio”.

La posizione condivisa, sia dal governo bolivariano che dagli opinionisti che in questi giorni dibattono sui media e in rete, è quella di considerare il diritto della Russia a difendersi e a difendere le repubbliche autonome dal nazismo ucraino e dalle mire della Nato, e di leggere l’attacco contro le istallazioni militari dell’autoproclamata repubblica Ucraina come inevitabile risposta alla provocazione degli Usa. “Siamo una rivoluzione pacifica, però armata”, hanno ripetuto spesso prima Chávez e poi Maduro per ribadire la determinazione a difendere il proprio sistema di pace, coniugato alla giustizia sociale.

D’altro canto, prima di tutto a Cuba, ma anche in Venezuela e Nicaragua, la popolazione è costantemente informata sulla politica estera del mondo globalizzato, e non rischia di perdersi negli ossimori o nei bizantinismi con cui la vecchia Europa maschera le aggressioni, chiamandole “guerre umanitarie”. Qui, poi, si ha una comprensibile orticaria di fronte alle autoproclamazioni riconosciute dai poteri forti, così come ai premi erogati dal Parlamento europeo a nazisti conclamati, o ai fiumi di denaro erogati a ong che si dedicano a tutt’altre azioni che a quelle “umanitarie”. Il 23 febbraio si è ricordato il tentativo d’invasione dalle frontiere venezuelane, mascherato da “aiuto umanitario” e orchestrato da quel concerto di forze tanto pronte a schiacciare la volontà dei popoli che vogliono decidere il proprio destino, quanto altrettanto pronte a difendere il “diritto” dei nazisti a massacrare a proprio piacimento le popolazioni del Donbass. E pesano le sanzioni alla Russia, in particolare l’esclusione dal sistema Swift, che avranno conseguenze per il Venezuela.

Un fattore non certo secondario è inoltre determinato dalla Colombia di Ivan Duque, un vero pericolo per il continente. Il governo colombiano ha riconosciuto per primo l’Ucraina autoproclamata e, come unico socio della Nato in America Latina, anche in questo frangente si è detto pronto a dare man forte all’Alleanza Atlantica con ogni mezzo possibile. Intanto, un gruppetto di militanti del partito di estrema destra Voluntad Popular ha manifestato per due giorni di seguito davanti all’ambasciata russa a Caracas, mentre si moltiplicano le prese di posizione dei governi satelliti degli Usa contro la Russia.

Una dettagliata analisi dello storico Vladimir Acosta, sintetizza gli argomenti del Venezuela e del campo socialista. Rileva come, dopo aver sistematicamente respinto tutte le ragionevolissime proposte russe sulla necessità di mantenere l’Ucraina fuori dalla Nato, gli Stati Uniti abbiano condotto una poderosa campagna di menzogne per annunciare un’invasione da parte di Putin, sempre smentita dalla diplomazia russa. Hanno diffuso falsi video e persino annunciato una data: prima il 15 febbraio (Bloomberg), poi il 16 febbraio alle 3 (Sun e Daily Mirror in Gran Bretagna), poi dandola per imminente (Il New York Times). Infine, siccome non succedeva niente, Biden ha detto che se non era in febbraio, l’invasione avrebbe potuto essere in marzo.

Una pagliacciata che ha spinto la portavoce del governo russo, María Zajárova, a burlarsi di Biden e a reagire con ironia a quel balletto di date, che sottendeva la minaccia di Biden di distruggere il gasdotto Nord Stream 2. E così – dice Acosta – gli Stati Uniti si sono risolti a provocare la guerra tra Kiev e il Donbass, armando fino ai denti il governo ucraino, e obbligando il governo russo a difendere le popolazioni di Donetsk e Luganska.

Biden ha appena annunciato di aver disposto ora altri 350 milioni in armamenti, da aggiungere ai 1.000 milioni di dollari di aiuti militari già erogati. La Nato ha inviato al governo ucraino centinaia di missili e migliaia di armi anti-carro, mentre il Giappone ha erogato a Kiev 100 milioni di dollari. L'Italia sta per inviare a sua volta mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari.

Ci si dovrebbe domandare – scrive Vladimir Acosta – di quale arbitrario diritto pensino di godere gli Stati Uniti. Supportati “dalla vergognosa Unione europea e dall’indegna e corrotta Gran Bretagna” hanno procrastinato per quattro mesi i negoziati e mantenuto il mondo sotto il peso di una minaccia nucleare con un costante bombardamento di notizie false replicate dai media del pianeta. E hanno ignorato sistematicamente ogni possibilità di replica della Russia, “il paese attaccato e calunniato”.

La Russia, conclude Acosta, “deve difendere la vita degli abitanti del Donbass, che parlano russo, hanno nazionalità russa e esigono da anni di essere riconosciute come repubbliche indipendenti che vogliono unirsi alla Russia”. Però Putin, “consapevole delle conseguenze, sta cercando con la Germania, la Francia e altri paesi europei, di fermare questa assurda guerra”. L’obiettivo è quello di arrivare “a un nuovo accordo di pace, come quello di Minsk. Se l’ottiene, si sconfigge il pericoloso bellicismo degli Stati uniti e si salva il gasdotto. Se fallisce, gli Stati Uniti si impongono e il disastro potrebbe essere grande”.

Domani, una delegazione di Kiev si incontrerà in Bielorussia con quella russa per tentare di aprire una trattativa. Putin ha accusato l’esercito ucraino di usare munizioni caricate con il fosforo alla periferia di Kiev. Il Pentagono ha ribadito che gli Stati Uniti “possono difendersi e difendere gli alleati”.

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