Andrea Zhok - La prospettiva di una guerra regionale

di Andrea Zhok

Ieri è giunta l'attesa risposta iraniana al bombardamento israeliano del consolato iraniano di Damasco, che aveva ucciso tra gli altri il generale Haj Zahedi.

L'Iran ha effettuato un attacco simultaneo con droni e missili in modo da saturare la poderosa difesa antiaerea israeliana. Missili hanno colpito due basi militari israeliane (monte Hermon e Novatim). Oggi l'autorità iraniana rivendica quei due obiettivi come primari, ma è abbastanza ovvio come questa rivendicazione abbia semplicemente la funzione di far coincidere gli obiettivi raggiunti di fatto con le intenzioni effettive (che non conosciamo), per poter dire che il successo è stato completo.

Al di là di queste schermaglie, gli obiettivi sono stati scelti intenzionalmente tra le basi militari israeliane, tralasciando i civili, in modo da poter considerare con questa risposta chiuso l'incidente aperto con l'attacco a Damasco, nel nome della proporzionalità.

Gli USA, sotto elezioni, non hanno nessuna intenzione di lasciarsi coinvolgere in un conflitto diretto con l'Iran, che li esporrebbe sull'ennesimo fronte simultaneo in termini di un sempre più complicato sostegno militare (Ucraina, Taiwan, Siria, ecc.). Biden ha già fatto sapere che, pur sostenendo come sempre Israele, non desidera un'ulteriore escalation.

La dirigenza iraniana, attraverso la voce del generale Mohammad Bagheri ha affermato, dal canto suo, che con questa risposta considera l'incidente chiuso, ma che si riserva di replicare in forma amplificata in caso di un nuovo attacco israeliano.

La palla è dunque ora nelle mani del governo israeliano, che può decidere o di minimizzare l'accaduto, sostenendo che i danni ricevuti sono irrilevanti e che nessuna replica è necessaria, o, al contrario, agitando lo spettro del primo attacco diretto sul proprio territorio, può preparare un contrattacco.

Un nuovo attacco israeliano obbligherebbe l'Iran a una risposta all'altezza delle promesse, avviando quella temuta escalation che non può che sfociare in una devastante guerra regionale (in una regione già sull'orlo di una crisi di nervi a causa del massacro di civili palestinesi avvenuto negli scorsi mesi e ancora in corso).

Purtroppo tutto lascia credere che Israele seguirà proprio questa strada, sia perché l'intento di innescare un'escalation sembra essere stato trasparente sin dall'inizio (l'attacco al consolato iraniano non aveva nessuna funzione strategica sul piano militare, ma solo il senso di una violazione così manifesta da obbligare una risposta), sia perché le sorti interne di Nethanyahu dipendono da quanto può prolungare il conflitto e quanto può fidelizzare il fronte interno intorno alle esigenze di difesa.

La prospettiva di una guerra regionale, oltre ad aprire scenari potenzialmente apocalittici sul piano strettamente militare, provocherebbe un'ulteriore crisi dei traffici lungo le direttrici del canale di Suez e dei canali di scambio di materie prime tra Europa e Asia (cosa che gli USA potrebbero gradire).

L'Europa, sempre più genuflessa agli USA, passiva e ridotta al ruolo di interprete di veline atlantiche, prepara ai propri popoli un futuro di stenti.

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