Venezuela, a proposito delle “mega-elezioni” del 21 novembre

27 Ottobre 2021 12:21 Geraldina Colotti

Si sa, o si dovrebbe sapere, che per fare informazione corretta occorre partire dai fatti. Si sa, o si dovrebbe sapere, che l’angolatura da cui si guardano i fatti può orientarne la presentazione e il giudizio, giacché lo scontro di interessi che determina la lotta di classe è anche scontro di concezioni. Si sa, o si dovrebbe sapere, che la grande concentrazione monopolistica a livello economico produce un’analoga concentrazione monopolistica a livello mediatico, rendendo anche l’informazione una merce valutata a seconda della spendibilità sul mercato.

Guerre economiche e aggressioni militari – guerre di quarta o quinta generazione con il loro corredo di golpe istituzionali, lawfare e “rivoluzioni di colore” - hanno infatti ormai sempre più il loro corrispettivo mediatico, che funziona da apripista o da copertura. Una premessa necessaria per quel che riguarda i paesi che, come il Venezuela, hanno deciso di intraprendere il cammino verso la transizione al socialismo depotenziando dall’interno lo Stato borghese per smentire il mantra secondo il quale non esistono alternative al modello capitalista. Un modello imperante a livello globale, ancorché in crisi sistemica.

In questo caso, i fatti dicono che, il prossimo 21 novembre, il Venezuela - che dal 1998, quando Hugo Chávez ha vinto le presidenziali, porta avanti il suo processo bolivariano-, arriverà alla elezione numero 29. In questo caso si voterà per eleggere governatori e governatrici dei 23 stati, sindaci e sindache dei 335 municipi, consiglieri e consigliere regionali e municipali. Vale precisare che la Repubblica Bolivariana del Venezuela è geograficamente composta da 23 stati più il Distretto capitale (che comprende parte della capitale Caracas). Gli stati sono suddivisi in municipi, Dipendenze Federali (isole, in maggioranza disabitate) e Territori Federali, e che si deve includere una Zona in disputa, relativa al territorio dell’Essequibo.

Quelle del 21 novembre vengono definite “mega-elezioni”, giacché l’autorità elettorale, il Cne, ha accolto la richiesta dell’opposizione di accorpare in un’unica data sia le municipali che le regionali. Si elegge, dunque, il più alto numero di rappresentanti popolari (3.082) incarichi per i quali si sono candidate 70.244 persone: 65.453 alle assemblee legislative e ai consigli municipali, 4.462 alla carica di sindaco, e 329 a quella di governatore. Al voto, anche 69 comunità indigene, che votano secondo proprie regole i propri rappresentanti.

Il 49% delle candidature è costituito da donne, mentre il 50,56 da uomini. Un dato che dimostra l’intenso lavoro del Cne per eliminare completamente l’esclusione di genere dalla società venezuelana, giacché la rivoluzione bolivariana considera la lotta contro il patriarcato fondativa del proprio sistema di governo. A presiedere l’organismo elettorale è stata d’altronde a lungo una maggioranza di donne, che ha dovuto far fronte ai reiterati attacchi di carattere maschilista da parte dell’opposizione nelle precedenti legislature. L’attuale presidente del Cne, lo storico Pedro Calzadilla, ha peraltro raccolto e rilanciato le sollecitazioni delle femministe venezuelane, in prima fila sia nel lavoro legislativo che in quello politico e sociale.

Non è un fatto di poco conto. Se, infatti, come il marxismo insegna, il livello di libertà e di civiltà di un paese si misura sulla condizione delle donne, anche quello del programma e della proposta si misura sul potere effettivo e sulla presenza di genere negli organismi decisionali. E mentre nel chavismo le donne occupano importanti incarichi di governo e dirigono l’80% degli organismi di massa, a destra vengono candidate e elette di rado, e ancor meno si registra la presenza di esponenti della “diversità sessuale”. Un dato che stride con la retorica di quei paesi capitalisti pronti ad appoggiare un oscuro farfugliante “autoproclamato” che nessuno ha eletto come “presidente a interim” della Repubblica, in nome della “democrazia” e della “libertà” contro la “dittatura di Nicolas Maduro”.

Emerge, al contempo, la carenza di proposta delle varie componenti di opposizione, sia in versione moderata che di estrema destra, presenti tra le 42 organizzazioni politiche iscritte al registro elettorale, 37 delle quali hanno presentato candidati a tutti gli incarichi e saranno presenti negli oltre 13.400 centri di votazione. Divisa e litigiosa, la destra venezuelana cerca di appropriarsi dei temi del paese nascondendo o distorcendo il significato del suo progetto, che consiste in un ritorno al sistema della Quarta Repubblica, basato sulla spartizione del potere da parte dei grandi gruppi dominanti, a loro volta dominati dall’imperialismo e dalle grandi istituzioni internazionali.

E così, ecco qua e là un candidato cercare di ribaltare con discorsi vuoti, che sembrano copiati da un volantino elettorale europeo, presentando come “populismo” il concetto di potere popolare e di democrazia “partecipata e protagonista” del processo bolivariano. Un ribaltamento che serve a nascondere la lontananza del socialismo bolivariano, che implica e rafforza le decisioni collettive, dal populismo delle destre europee, che debilitano il quadro istituzionale, verticalizzando le decisioni politiche dietro una falsa opzione sistemica.

E così, ecco qua e là un candidato proporre addirittura “più case per la comunità”, a fronte della Gran Mision Vivienda creata da Chávez, tutt’ora in marcia nonostante il feroce bloqueo. Peccato che una delle prime decisioni prese dal parlamento finito a destra, dopo le elezioni del 2015, fosse stata proprio quella di snaturare la la Mision Vivienda per riconsegnarla nelle mani dei grandi gruppi immobiliari. Anche la bandiera della “lotta alla corruzione” viene agitata da una destra impresentabile, che in questi anni ha avuto come principale obiettivo quello di incamerarsi le risorse del paese, secondo una tendenza insita nel modello che propone.

Un modello che si regge sulla più grande delle mistificazioni, derivante dall’occultamento della natura violenta insita nello sfruttamento del lavoro da parte del capitale, e sulla truffa del cittadino che sarebbe uguale davanti alla legge, mentre la sua realtà è determinata dalla posizione che occupa nella società divisa in classi.

I 28 processi elettorali celebrati in Venezuela smascherano invece proprio la truffa della democrazia borghese, così perfetta e pacifica da essere esportata a suon di bombe nel sud globale, dove però il popolo vota ma non decide. E, infatti, l’affluenza elettorale cala di anno in anno, ma nessun grande manovratore si sognerebbe di invalidare quelle elezioni. Per il chavismo, invece, il voto non è un feticcio o un rito, ma uno strumento per far crescere la coscienza e l’organizzazione delle masse.

L’arroganza coloniale, mentre non prevede “osservatori” elettorali provenienti dai paesi del sud, pretende però di imporne di propri per decidere quali governi rispondano agli standard occidentali e quali invece no. E perciò è sicuramente un attestato di indipendenza quello mostrato dal Venezuela, che considera “accompagnanti” e non osservatori chi desidera seguire da vicino lo sviluppo dei vari processi elettorali.

Per l’occasione, varie delegazioni sono già presenti nel paese, per constatare l’inattaccabilità del sistema elettorale venezuelano, altamente automatizzato e sottoposto a vari cicli di verifica pubblica, prima, durante e dopo il voto. Il governo bolivariano ha rivolto l’invito anche a quelle istituzioni che, come l’Unione Europea, non hanno fatto mistero delle proprie “simpatie” politiche. Uno dei principali meriti della politica bolivariana di questi anni, diretta da Nicolas Maduro, è stato infatti quello di aver saputo disarticolare e minimizzare la forza degli avversari imponendo la propria “diplomazia di pace”.

Non a caso, il dialogo in Messico anche con l’estrema destra venezuelana, faccia di cartone dell’imperialismo nordamericano, è stato al centro del tentativo di ricondurre il conflitto nell’alveo istituzionale. E non a caso, i falchi del Pentagono e i loro burattini regionali hanno sganciato sul dialogo il sequestro del diplomatico Alex Saab. Lo scenario che hanno in mente è sempre il medesimo: riconoscere le elezioni solo in caso di vittoria della destra, e nel frattempo confondere le acque e le idee agli oltre 21 milioni di aventi diritto chiamati a esercitare il voto.

Il furto o lo stravolgimento dei concetti serve a occultare il furto di futuro che riserva il modello capitalista e ad allontanare dal socialismo la simpatia delle classi popolari europee. In questo, le borghesie della vecchia Europa e i loro cani da guardia, sono maestri e la battaglia in vista del 21 novembre è anche battaglia delle idee.

Viene in mente al proposito una frase di Seneca, contenuta negli scritti sulla Clemenza, che illumina ancora adeguatamente le considerazioni materialistiche necessarie a rendere intellegibile agli oppressi il discorso manipolatore e sviante degli oppressori. “Una volta si decretò con un voto del Senato che gli schiavi dovessero distinguersi dai liberi per l’abbigliamento; poi però ci si rese conto di quale pericolo ci avrebbe minacciato, se i nostri schiavi avessero cominciato a contarci”.

D’altronde, proseguiva il filosofo neo-stoico oltre 2.000 anni fa, “come i cavalli generosi e nobili si lasciano governare meglio con un freno leggero, così l’innocenza segue per un proprio impulso la Clemenza, e i cittadini credono che essa meriti di essere conservata per il proprio interesse. Perciò, in questo modo, si ottengono risultati migliori”.

Una lezione che la borghesia, di fronte alla necessità di sottomettere il proletariato mediante lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale, ha imparato, e che, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ha preso ad affinare ulteriormente per impedire una nuova ripresa del blocco sociale capace di seppellirla. La borghesia vittoriosa ha imposto la sua visione del mondo, inducendo anche i dominati a pensare e a pensarsi secondo le categorie del “dio mercato”. Un mercato in cui agirebbero, in una specie di scambio naturale, “imprenditori di se stessi” fornitori di capitale umano e imprenditori che assumono.

Un gioco truccato e feroce, invece, nel quale i primi appartengono alla massa crescente di lavoratori precari, isolati e senza diritti, i secondi al campo schiavista che ha il potere di “sceglierli nel mazzo”, senza garanzie e senza contratto, chiedendo loro di essere sempre a disposizione, e anche di ringraziare per il privilegio ottenuto.

Venuta meno la visione d’insieme della grande fabbrica, dove l’asimmetria insita nello sfruttamento era evidente e l’imbonimento poteva arrivare semmai dalla constatazione riformista che, con un buon avanzamento salariale, il lavoratore “non stava poi tanto male”, nella società parcellizzata si è persa la “complessità dell’opera comune”. La truffa del dio mercato può plasmare anche la vita fuori dal lavoro in base alle esigenze dell’azienda, manipolando e parcellizzando gli istinti al pari delle mansioni.

E così, in nome della “libertà”, avanzano nuovi fascismi, rancori e conati corporativi, che si scagliano contro i vaccini anziché contro lo Stato borghese che non tutela la salute ma gli interessi delle imprese. Il discorso imbonitore delle classi dominanti e dei loro “cani da guardia” accompagna la presentazione del Vertice dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi appartenenti al G20, il foro che riunisce le principali economie del mondo. Si terrà a Roma dal 30 al 31 ottobre del 2021, giacché l’Italia ha la presidenza del G20 dal 1° dicembre 2020.

I Paesi del G20 rappresentano l'85% del Pil, il 75% del commercio e il 60% della popolazione mondiale. I leader dei paesi capitalisti, le grandi istituzioni internazionali e i grandi gruppi economici, responsabili della devastazione del pianeta, parleranno di “sfide” e “inclusione” sui temi della pandemia, dei cambiamenti climatici, del sostegno all’innovazione e della “lotta contro povertà e disuguaglianze” intorno al seducente trinomio in lingua inglese, People, Planet, Prosperity.

Dobbiamo – dicono – “prenderci cura del pianeta e delle persone, assicurando una forte ripresa economica che sia al contempo inclusiva e sostenibile”. Un sistema così “inclusivo” nel quale 60 famiglie possiedono la ricchezza dell’intero pianeta. E qui tornano le parole di Seneca circa il pericolo che minaccerebbe i dominanti se gli schiavi cominciassero a contarli, e spezzassero quel guinzaglio “leggero” che li induce ad accettare la propria sorte.

(Articolo scritto per Cuatro F)

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