“Smile for Gaza”, Israele non potrà mai cancellare la bellezza di un tramonto (come fa con la libertà)


Patrizia Cecconi,
Gaza 1 febbraio 2016

Il mio febbraio in Gaza Strip inizia con una festa. Una festa organizzata da un’associazione locale, la Heart Beat Youth Center (H.B.Y.C.) legata ad un programma che ha per nome “Smile for Gaza”. Sono tutti operatori piuttosto giovani, come quelli che in Cisgiordania vengono definiti la generazione di Oslo e che, proprio in Cisgiordania, ci stanno dimostrando che era una definizione sbagliata.

Sono educatori maschi e femmine, psicologi e pedagoghi maschi e femmine e lavorano insieme con bambini disabili cercando un’interazione ed un’integrazione tra questi e quelli cosiddetti normo-dotati. Fin qui si potrebbe dire niente di nuovo sotto il sole, in Italia è normale, almeno come tentativo.

Ma qui di diverso c’è che ci troviamo in un campo profughi poverissimo e abbastanza sconosciuto, in una zona nei pressi di Khan Younis che, con o senza guerra, vive pesantemente l’assedio israeliano.

Qui tutto è emergenza e basta un colpo d’occhio per capirlo. Per questo, dove tutto è emergenza, occuparsi di bambini disabili dal punto di vista non della sopravvivenza, ma del loro benessere psicologico diventa qualcosa di speciale.

Sono arrivata con un po’ di difficoltà in questo posto e il conducente del service, cioè del taxi che serve più persone per diverse tratte del viaggio e che è un ottimo sistema di trasporto in tuta la Palestina, ha parlato diverse volte al telefono con gli organizzatori dell’evento perché non riusciva a capire dove fosse il posto. Non lo racconto per fornire un dettaglio inutile, ma per spiegare il motivo per cui sono stata accolta con un calore ancor più straordinario del solito: non vedono mai un’internazionale perché sono “fuori circuito”. Forse per questo mi hanno chiesto di pubblicare foto con tutti i bimbi disabili che si esponevano sorridendo accanto a me, ma ho scelto di non farlo. Quelle immagini resteranno nei loro tablet e nel mio archivio, mentre pubblicherò foto generali per far capire il luogo e il lavoro che questi giovani palestinesi fanno per i loro fratelli meno fortunati.

Il centro in cui si svolgeva la festa ha le pareti arricchite di murales, sì, perché la povertà dei mezzi non cancella il colore ma, anzi, se ne serve per liberare l’allegria incupita dalle difficoltà.


Genitori e operatori del centro erano particolarmente fieri di un murale di fronte al quale credo mi abbiano scattato qualche centinaio di foto. Ma non temete, ne pubblicherò soltanto una! E pubblicherò la foto di una bimba disabile straordinariamente intelligente la quale mi ha pregato in arabo, in inglese e perfino in italiano (parole apprese al volo) di essere pubblicata.

Pubblicherò solo il suo viso perché questa bambina, di nome Riha, mi ha ricordato “La baronessa dell’Olivento” di Raffaele Nigro, quella il cui corpo era tutto dentro un canestro dal quale usciva solo il suo bellissimo viso.



La baronessa dell’Olivento è un’invenzione letteraria, Riha invece è una realtà. Forse dovuta ad armi proibite che hanno inquinato terra e aria producendo effetti terribili sui nuovi nati? Non lo sappiamo, so solo che il cervello di questa bambina è tanto potente quanto il suo corpo è inesistente e questo forse le procurerà un enorme dolore, ma oggi sembrava felice e distribuiva sorrisi a tutti, sembrava la rappresentazione dello slogan Smile for Gaza.

Che dirò al border quando la soldata o il soldato israeliano mi chiederanno cosa ho fatto e cosa faccio a Gaza? Potrei dire loro che ho assistito a delle meraviglie che non possono neanche immaginare. E che sono due volte tali perché l’assedio le rende doppiamente straordinarie.

Potrei dirglielo ma non glielo dirò: non servirebbe. Però lo dico a chi mi legge e aggiungo: toglietevi dalla testa gli stereotipi utili solo alla narrazione pro-israeliana o sionista tout court, la verità è ben diversa!

Durante la festa sono stata più volte “sequestrata” per interviste, ahimé sempre in inglese, o per farmi conoscere realtà collegate ai progetti di H.B.Y.C e così ho scoperto che nel centro si svolge un programma dedicato ai bambini affetti da autismo. Con grande fierezza per il lavoro svolto mi vengono mostrati i loro disegni. Poi vengo portata a vedere una sorta di campionario di vita nel campo che scopro chiamarsi Alhawooz.



Vengo portata in molte case, vale a dire in stanze più o meno grandi che con un po’ di fantasia e con un umorismo che non offenderebbe certo queste straordinarie persone potremmo chiare loft. Alcune hanno salotti eleganti che fungono, a seconda degli orari, da stanza da letto, da pranzo o da vero e proprio salotto. Altre, come quella in cui verrò accolta da una vecchia allegrissima signora che mi riempirà di complimenti e di baci, sono veramente poco più che terra battuta circondata da quattro mura. Qui al posto dell’arredamento c’è una miriade di figli, figlie e nipoti di tutte le età che sembrano tutte e tutti allegri e tutti vogliono farmi mangiare o bere qualcosa. Tornerò a Gaza city con una riserva di shay ma maramieh (tè alla salvia) che avrebbe soddisfatto anche un cammello.

Lungo la strada rubo qualche foto al sole che comincia a cadere sul mare alla mia sinistra e quando arrivo al porto immortalo un altro tramonto, sempre per la serie: Israele non è onnipotente, e la bellezza dei tramonti non può cancellarla come fa con la libertà.

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