IL SARTO DI AL MAGHAZI

Patrizia Cecconi,
Gaza - 10 marzo 2016
Il campo profughi di Al Maghazi è uno dei più piccoli, ha un’estensione di poco più di mezzo km quadrato in cui vivono piuttosto strettini circa 24mila profughi del “48. Si trova nel governatorato di Deir Al Balah più o meno al centro della Striscia.


Una via del campo profughi di Al Maghazi


Ho conosciuto i membri del comitato del campo qualche giorno fa. Incredibile questo popolo! Mi hanno accolto come fossi al tempo stesso una persona di famiglia e una grande autorità. Non sono né l’una né l’altra, ma quando mi chiamano “sorella” sento che c’è qualcosa di vero. Parlando della situazione del campo e del perché io sono a Gaza si sono entusiasmati e mi hanno chiesto di tenere un corso intensivo di italiano con il sistema di cui gli ho parlato. Che fare?


La via principale del campo. In primo piano le bandiere del Fronte, in fondo quelle di Hamas e di Fatah

La richiesta è stata così calda che non potevo dire di no. In fondo la giornata ha 24 ore e strappargliene 4 per un corso accelerato di 15 giorni ho pensato che si potesse fare. Così il corso proposto dall’associazione Oltre il Mare che presiedo e realizzato col Centro Italiano di scambio culturale Vik, raddoppia!

Il campo di Al Maghazi è qui dal 1949, fu allestito dall’Unrwa per accogliere i profughi cacciati dalle loro città e dai loro villaggi diventati improvvisamente Stato di Israele. Anche qui si pensava a qualcosa di temporaneo, ma poi pian piano si è capito che l’attesa sarebbe stata lunga e così le case si sono fatte di mattoni ed ora, a distanza di 67 anni, il campo è abitato per oltre il 90 per cento da persone nate qui, come profughi nella loro stessa terra. Come Abu Yazid, membro del comitato con cui mi devo accordare, e Abu Hala che conoscerò nel suo negozio di sarto, e come le loro mogli e i loro figli.

Doveva essere solo un veloce meeting organizzativo, ma siamo in Palestina, e se ti chiamano sorella significa quantomeno che a casa ti hanno preparato il pranzo! Così Abu Yazid mi porta a casa sua dove mi mostra una collezione di oggetti palestinesi di decine e di centinaia di anni fa di cui va molto fiero. Ed è giusto che ne vada fiero, perché attraverso gli oggetti di rame, di ferro e di coccio appartenuti al passato, si afferma l’esistenza di una Palestina che non vuole essere dimenticata.

Collezione di antiquariato palestinese di Abuyazid.

Si parla a lungo durante il pranzo, grazie anche alla presenza di Shadi e Rami che oltre che amici sono i miei traduttori. E la moglie di Abuyazid è con noi, al contrario di altre situazioni in cui le donne restano in disparte. Ma qui siamo in un’area che, per dirla con un’espressione occidentale, può definirsi progressista e lo si vede anche da questo. Ovviamente, a chi pensa a una Striscia di Gaza monolitica e conservatrice questo sembrerà strano, come sembrerà strano vedere lungo la stessa strada festoni di bandiere rosse del Fronte Popolare che si susseguono a bandiere gialle di Fatah e a bandiere verdi di Hamas.

Dopo il pranzo, diciamo così “di lavoro”, andrò a conoscere meglio il sarto che ho incontrato stamattina quando mi sono affacciata al suo negozio, incuriosita dalla parete in cui erano appesi fusi di fili colorati.

È così che ho conosciuto Abu Hala, ovvero Mohammad Al Rifaher, uno dei 40 sarti del campo di Al Maghazi. I sarti! Professione altrove quasi scomparsa e qui invece così diffusa! È nato nel 1950 Abu Hala, la famiglia cacciata da Giaffa, “la terra delle arance tristi” come l’avrebbe chiamata Kanafani nel suo struggente racconto che si trova tradotto in italiano e che narra con grande maestria letteraria quel che tante, troppe famiglie palestinesi hanno vissuto in quel terribile 1948. Lo stesso anno in cui il mondo si arricchiva della Dichiarazione dei diritti umani. Paradossi della vita su questo pianeta!


Abu Hala - foto di Shadi AlQarra

Abu Hala è nato e ha studiato nel campo fino a 17 anni, poi è andato all’università in quella che allora era la Yugoslavia e si è laureato a Belgrado in Scienze politiche ed economiche. Nel “69 si era già legato ai fedayn e aveva iniziato a partecipare alla resistenza militando nel Fronte di Liberazione Popolare sotto la guida di George Habash.

Tra un tè alla salvia e un caffè al cardamomo che non mancano mai, mi racconta tutte le peripezie di quegli anni. Mi racconta della sua tappa a Gerico, esattamente ad Al Uoja, a 15 metri dalla riva del Giordano, dove ora i palestinesi non possono più arrivare perché gli occupanti lo vietano. Mi racconta di quando decise che era più sicuro lasciare Gerico e tornare a Gaza, dopo essere stato a Betlemme e qui aver incontrato altre figure della resistenza ormai conservate solo nella memoria. Ricorda ancora che dopo aver scelto di tornare a Gaza perché altrove era difficile sfuggire alle truppe occupanti, arrivò nella sua casa alle 5 del pomeriggio di un giorno d’estate e fu grande festa con i suoi compagni, i fedayn che erano già a Gaza. Lo racconta sorridendo e c’è un filo di ironia che viene trasmessa anche attraverso la traduzione. Capisco il perché dell’ironia quando aggiunge che poche ore dopo essere arrivato, mentre dormiva nella sua casa, Moshe Dayan con le sue truppe invase la Striscia. Pare che Moshe Dayan avesse dichiarato che Gaza fosse un covo di fedayn e che in una notte l’avrebbe occupata. Fu così. E proprio quella notte lui venne arrestato. Era il 1971.


Foto di Shadi AlQarra

Restò in prigione fino al 1985, poi beneficiò di uno scambio tra prigionieri. Aveva già conosciuto la prigione israeliana per un breve periodo a 17 anni, prima di emigrare in Yugoslavia. Altri 14 li avrebbe fatti in quest’occasione. In galera imparò per necessità a fare il sarto. Cominciò così. La laurea non gli sarebbe servita!
Qualche altro scampolo nelle galere israeliane se lo fece nel 1990, stavolta in detenzione amministrativa nel deserto del Negev. Ma gli anni hanno cambiato molte cose e ora Abu Hala è un combattente a riposo che sogna, come quasi tutti, un futuro di giustizia e quindi prima di tutto l’eliminazione dell’assedio e dell’occupazione. Lo sognava anche nel 2014, in quell'estate maledetta in cui un bombardamento mirato distrusse completamente la casa della sua famiglia. Ma Abu Hala è ancora qui e ora vive in una casa con tanti bambini.

Per raccontarmi la sua vita questo vecchio fedayn ha chiuso la sartoria e mi ha portato proprio in questa casa. La moglie è simpatica, ha l’aria di una donna forte e determinata. Resta un po’ con noi, poi viene chiamata nell’altra stanza dove c’è molta gente, forse parenti, forse altri amici. Mentre ascolto il racconto di Abu Hala ogni tanto entra un bambino a salutare il nonno. Ma quanti sono? Ne avrò già contati una dozzina. Mentre chiedo ridendo “ma non finiscono mai?” Rami, il mio interprete, mi ricorda che per i palestinesi i bambini sono un bene preziosissimo, sono la garanzia di un futuro che renderà loro giustizia.


Il laboratorio di sartoria di un vecchio combattente per la liberazione della Palestina.

E con questa speranza ci salutiamo. Tornerò al campo tra qualche giorno per insegnare l’italiano a chi sogna, e sa, che l’assedio non può essere eterno e che aggiungere una conoscenza linguistica aiuta intanto a superare l’isolamento, almeno psicologicamente. Poi arriverà la giustizia, ormai la si aspetta da troppi anni e chi, come Abu Hala non si rassegna, è convinto che presto dovrà arrivare.

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