Egitto, Mediterraneo e il flop sui diritti umani


di Fulvio Scaglione* - occhidellaguerra

Dopo la morte atroce di Giulio Regeni, gli italiani hanno di colpo (o quasi) scoperto che esiste un “caso Egitto”.
Per due anni e mezzo abbiamo tirato un collettivo sospiro di sollievo: da quando, cioè, il colpo di Stato dei militari del generale Al Sisi ha impedito al presidente Morsi di trasformare l’Egitto nella piazzaforte dei Fratelli Musulmani. Per piacere, non neghiamo che sia stato così, basta ipocrisie. Lo stesso sospiro di sollievo che tirammo nel 1992 quando l’esercito algerino intervenne contro il Fronte islamico di salvezza che pure, proprio come Morsi, aveva legittimamente vinto un’elezione legittima.
Poi, come sappiamo, è stato ucciso Regeni. E di colpo l’Egitto di Al Sisi è diventato il Paese dei desaparecidos: 1.250 nei primi quattro mesi del 2016, secondo l’Egyptian commission for rights and freedom (http://www.ec-rf.org/), una media di quattro al giorno secondo gli attivisti per i diritti umani.
Anche se abbiamo gestito con molto calma, in passato, casi anche più gravi (vogliamo parlare dei venti europei, tra i quali tre italiani, ammazzati da un pilota militare americano il 3 febbraio 1998 sulla funivia del Cermis?), fa benissimo il Governo italiano a pretendere la verità sulla fine di Regeni.
Nessun Paese potrebbe tollerare le clamorose bugie egiziane a proposito della morte violenta di un proprio cittadino. Anzi: altri Paesi avrebbero provvedimenti duri e concreti. Difficilmente avremo la verità, è persino possibile che nemmeno Al Sisi la conosca o possa permettersi di rivelarla. Ma non dobbiamo mollare.
Il punto però è un altro: lo sdegno e l’emozione per l’assassinio del giovane cittadino italiano ci sta portando a prendere un altro abbaglio sulle dinamiche del Medio Oriente. La tesi che ora prevale, a proposito dell’Egitto, è che la mancanza di democrazia sia, in sé, una minaccia alla sicurezza nel Mediterraneo, alla nostra sicurezza. È quanto ha sostenuto, autorevolmente, anche Emma Bonino, ex ministro degli Esteri: “La Francia e l’Italia insieme si devono occupare dei diritti umani, in particolare in Egitto, perché sono una parte vitale della nostra politica di sicurezza”, ha detto a Repubblica.
I diritti umani, invece, sono una parte vitale della nostra civiltà ma c’entrano poco con la politica di sicurezza. Gheddafi non era certo un esempio, quanto a diritti dei cittadini, ma la sicurezza nel Mediterraneo era maggiore quando lui c’era. E il nuovo Governo di unità nazionale in Libia, nato sotto l’ala dell’Onu, sarà di certo più attento ai diritti dei cittadini ma senz’altro meno in grado di contribuire alla sicurezza globale.
La Francia (liberté, egalité, fraternité) dei diritti umani in Egitto se n’è altamente fregata ed è corsa a vendere armi. Noi, più degnamente, non venderemo armi e ci batteremo per un maggiore rispetto dei diritti umani, ma il risultato sarà purtroppo lo stesso. Perché ciò che, in Egitto, davvero attenta alla sicurezza è quel 42% di giovani disoccupati che non troveranno mai lavoro. Quel 29% di giovani egiziani NEET (cioè che non studiano e non lavorano), quei 600 mila giovani che ogni anno arrivano sul mercato del lavoro e trovano il vuoto. È lì, in quelle masse sempre più ampie e sempre più disilluse, che il radicalismo islamico fa proseliti. Ed è lì che dovremmo intervenire. E potremmo farlo: l’Egitto sta in piedi grazie ai soldi sauditi e ai rapporti commercial-militari con i Paesi occidentali. Ma noi facciamo altro. Ignobili come Hollande, gli vendiamo portaerei. Nobili come noi italiani, chiediamo ad Al Sisi di smettere di essere un generale per diventare un attivista dei diritti civili.

*Vice-direttore di Famiglia Cristiana. Rilanciamo su gentile concessione dell'Autore.

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