Trump: Keynes contro Hayek



di Miguel Angel Ferrer - teleSUR

Come è noto, il termine democrazia non è il più appropriato per descrivere il sistema politico statunitense. Il termine giusto è plutocrazia. Da Plutone, il dio greco della ricchezza, e kratos, il potere. Non si tratta, quindi, del governo del popolo, dal popolo e per il popolo, secondo le celebri parole di Abraham Lincoln, pronunciate al termine della battaglia di Gettysburg, ma del governo dei ricchi, dai ricchi e per i ricchi.

Ma mentre questa realtà è evidente, lo è anche legare la parola democrazia al sistema politico statunitense quasi come un riflesso automatico. Per questo si potrebbe dire che il sistema è una plutocrazia travestita da democrazia. In questo modo la caratterizzazione è maggiormente descrittiva e giusta.

Così è stato lungo gli oltre 200 anni di vita indipendente degli Stati Uniti. In questo senso non esiste alcuna differenza tra i governi, per esempio, di Kennedy, Johnson, Reagan, i due Bush, Clinton, Obama e quello che andrà a guidare dal prossimo 20 di gennaio Donald Trump.

Tutti governi imperialisti, finora la maggiore differenza tra Trump e i suoi predecessori degli ultimi 40 anni è la politica economica. Neoliberista, globalizzatrice, generatrice di disoccupazione e concertatrice del reddito a partire da Ronald Reagan, adesso Trump offre, almeno a parole, una politica economica keynesiana, geriatrico di occupazione e redistibutrice del reddito.

Una seconda differenza, finora presente solo nel discorso di Trump, è una predisposizione minore o meno evidente a usare la guerra come mezzo di dominio economico.

Queste due offerte di Trump (ritorno al keynesismo e politica meno guerrafondaia) sono state la chiave della sua vittoria elettorale. Il ricco imprenditore newyorkese ha saputo capitalizzare il malcontento popolare contro la globalizzazione e la politica guerrafondaia selvaggia. Circostanza logica. Quattro decenni di continuo impoverimento popolare, i traumi e le conseguenze sociali e mentali di guerre, tanto inutili quanto sanguinarie, sono state la catapulta per l’insurrezione elettorale dell’8 novembre 2016.

Volendo osservare la questione in termini di dottrine economiche, possiamo affermare che stiamo assistendo a un confronto tra John Maynard Keynes e Friedrich von Hayek. Oppure in termini politico-personali tra Franklin Delano Roosevelt e Ronald Wilson Reagan. Mentre in termini di mezzi di sussistenza, occupazione contro disoccupazione e salari soddisfacenti contro salari spazzatura.

Di fronte a questo dilemma, allora, cosa c’è di strano se la classe operaia, altri settori popolari e molto significativamente le donne, le persone senza educazione universitaria, hanno in larga maggioranza votato per Trump? Le donne, nel caso qualcuno lo avesse dimenticato, sono esse stesse proletarie, spose o partner di proletari. E non sono le donne e i proletari quelli che hanno meno opportunità e possibilità di frequentare l’università?

Tuttavia non possiamo ancora sapere se Donald Trump attuerà la sua offerta di una politica economica keynesiana. Ma vi sono già alcuni indizi che la sciano intendere il proposito di abbandonare le assurde politiche economiche hayekiane, tanto gradite da Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Augusto Pinochet, Saul Menem e Mauricio Macri, che spiccano tra i fautori e propagandisti della globalizzazione e del Washington Consensus.

Ma già è chiaro che Trump è venuto a rappresentare la rottura con l’ideologia neoliberista alla quale l’umanità deve in buona misura le sue sofferenze attuali. In particolare la disoccupazione e la precarietà del lavoro. Questa rottura, al di là di condanne e denigrazioni, deve essere accolta con favore.

(Traduzione dallo spagnolo per l’AntiDiplomatico di Fabrizio Verde)

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