Si scava sotto i piedi dell'“ultimo dittatore d'Europa


di Fabrizio Poggi

E' di 12 morti il bilancio della notte di sangue in Cecenia, per il tentativo di un gruppo armato terrorista (ma i media occidentali, li innalzeranno sicuramente a “combattenti indipendentisti”) di dare l'assalto alla cittadella della Guardia nazionale nella stanitsa di Naurskaja, un'ottantina di km a nordovest della capitale Groznyj. Sul terreno sono rimasti sei terroristi e sei militari del 140° reggimento della 46° brigata speciale della Guardia nazionale; feriti altri due militari. I terroristi uccisi erano pesantemente armati; due di essi portavano anche cinture esplosive. L'ipotesi è che intendessero attaccare il convitto in cui sono alloggiate anche le famiglie dei militari e impossessarsi inoltre dell'arsenale della guarnigione.



E' questo il terzo attacco in tre mesi in Cecenia: l'11 gennaio a Tsotsi-Jurt (30 km a est di Groznyj), morirono due militari e quattro terroristi; il 30 gennaio a Šali (40 km a sudest della capitale), a un posto di blocco morirono due poliziotti e tre terroristi. Secondo l'agenzia Kavkazkij uzel, nel 2016 sono rimaste uccise 200 persone (160 attaccanti, 32 militari e 8 civili) e altre 85 ferite. Ma questi morti non fanno notizia. Tanto più che la Cecenia di Ramzan Kadyrov è considerata un fedelissimo avamposto di Mosca in un Caucaso attraversato da raggruppamenti islamisti che, per definizione mediatica, spargono il terrore solo quando colpiscono a ovest dell'Oder.

A est, si tenta ancora qualche manovra apparentemente meno cruenta, anche se in termini di perdite sociali, i risultati degli interventi a servizio degli interessi economici e geopolitici occidentali lasciano pochi dubbi sul cinismo dei protagonismi.

E dunque, si sono conclusi la scorsa settimana a Minsk, a quanto pare senza risultati di fatto, i colloqui tra Aleksandr Lukašenko e i rappresentanti del FMI, per un credito di almeno 3 miliardi di dollari in 10 anni al 2,28% annuale, a fronte di un debito estero bielorusso, stando a rusvesna.su, di oltre 13,5 miliardi di dollari.

Come scrive rusvesna.su, la Bielorussia ha urgente bisogno del credito per coprire almeno in parte i propri debiti, per lo più con la Russia. Per quanto riguarda i crediti cinesi, Minsk può utilizzarli solo nei rapporti commerciali con Pechino. Quelli del FMI, nonostante Lukašenko li giudichi “vantaggiosi” da un punto di vista strettamente finanziario, impongono a Minsk le consuete condizioni ormai note: riforme di mercato e tagli alle garanzie sociali, con cessazione dei contributi statali per alloggi e trasporti, congelamento di salari e pensioni e altre misure di sostegno pubblico. “Raccomandazioni” del FMI come proiettili, a scoppio appena ritardato.

Nonostante i peana all'indirizzo della UE - “un potente sostegno per il pianeta, se cade sarà una disgrazia” - intonati da Lukašenko in occasione dell'incontro col vice premier belga Didier Reynders, la Bielorussia si trova in una situazione abbastanza critica: a causa della diminuzione delle forniture di petrolio russo, acquistato esentasse, sono conseguentemente calate le vendite dei derivati bielorussi all'Occidente, che costituiscono una delle principali voci di entrata del bilancio.

Secondo l'agenzia BelaPAN, se l'export di prodotti petroliferi (l'importazione di petrolio da Azerbajdžan e Iran è ancora in fase sperimentale) era stato di 1,6 milioni di tonnellate a gennaio 2016, si è dimezzato a 744mila tonnellate al gennaio scorso, concentrato principalmente verso Ucraina, Gran Bretagna e Olanda. Sembra che se non andrà in porto il credito del FMI, Minsk dovrà ricorrere alle scarse riserve oro – circa 5 miliardi $, secondo l'economista bielorusso Sergej Bartkevi?, citato da RT – e, nonostante si sia sinora attenuta alle “raccomandazioni” monetarie del Fondo, la situazione potrebbe costringere le autorità a emettere moneta.

Ma intanto Lukašenko si intrattiene al telefono con Petro Porošenko, discutendo del “coordinamento sulle questioni internazionali, del processo di pace in Ucraina e del contributo bielorusso per una rapida risoluzione del conflitto", come dichiarato dal servizio stampa presidenziale.

In questa cornice, mentre il presidente bielorusso lancia l'allarme su numerosi casi di raggruppamenti armati trovati ad “allenarsi” in alcuni campi di addestramento, c'è chi nota che proprio nella “fraterna Ucraina che lotta per l'indipendenza” e anche, venti anni prima, in Serbia, tutto cominciò in questo modo.

Lo ricorda, ad esempio, il vice direttore dell'Istituto per i paesi della CIS, Vladimir Žarikhin, sentito da Moskovskij Komsomolets. Mentre per l'opposizione si tratterebbe di esercitazioni di reparti speciali della polizia, in vista di repressioni governative, Aleksandr Grigorevi? Lukašenko, con qualche maggior fondamento, punta invece il dito contro una “quinta colonna”, sponsorizzata da organizzazioni occidentali, per l'ennesima “rivoluzione colorata”. Il copione è sempre lo stesso, ricorda Žarikhin e la trama comincia a svilupparsi soprattutto allorché “il potere comincia a flirtare con l'Occidente e non è quindi pronto, nemmeno psicologicamente, a reprimere con decisione le attività anticostituzionali. E Lukašenko ha per l'appunto iniziato questo gioco”. Il giorno chiave potrebbe essere domani, chiosa rusvesna.su, allorché, come tradizione, ogni 25 marzo, l'opposizione celebra la Giornata della libertà.

Una giornata in cui, probabilmente, parte dei bielorussi confermeranno la propria intenzione di non considerare più Aleksandr Grigorevi il “bat'ka” bielorusso (una sorta di “padre” o “capofamiglia” o “capoclan”) mentre c'è chi nota come egli abbia al contrario affinato, nei 23 anni di presidenza, “l'arte di essere bat'ka”, come scrive Eduard Limonov su Svobodnaja Pressa. Limonov ricorda quanta acqua sia passata, dal momento in cui, oltre venti di anni fa, i giovani fanatici del Fronte Nazionale Bielorusso lo presero a seggiolate al grido “emissario dei moskalej” e in sua difesa intervennero i giovani della Unione Nazionale Russa, un'organizzazione nazionalista, cui non era estraneo Aleksandr Grigorevi?.

Oggi invece, al posto della fedeltà all'unione russo-bielorussa, “bat'ka” Lukašenko pretende di ammettere osservatori della Nato alle manovre congiunte russo-bielorusse del settembre prossimo. L'ex ufficiale del KGB dell'Urss, si chiede retoricamente Limonov, ha forse “dimenticato il concetto di "segreto militare" e che non si dovrebbero mostrare a un molto probabile futuro nemico i nostri mezzi e metodi di attacco?”. Questa è testardaggine, grida il nazionalista Limonov, al solo “scopo (dopo il rifiuto di Mosca di ridurre il prezzo del gas destinato a Minsk al livello di quello interno russo) di punzecchiare la Russia. Caparbietà e vendetta”. Ecco cosa accade, continua Limonov, con un “uomo da 23 anni sulla poltrona presidenziale. Non mi meraviglierei se credesse alla propria immortalità”.

Come che sia, mentre nel Caucaso si continua a versare sangue per gli attacchi islamisti, veri o presunti, sembra che più a nord si stia attivamente scavando sotto i piedi dell'ex “ultimo dittatore d'Europa”: una volta provocato lo smottamento, si correrà in suo “soccorso” alla maniera di majdan.

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