Carneficina a Teheran. È la reazione della mafia jihadista saudita



di Omar Minniti

Al momento si contano almeno dodici vittime e trenta feriti nelle vie di Tehran, ma è un bilancio parziale destinato a crescere di ora in ora. L'Iran è stato colpito al cuore, fin dentro il suo parlamento. Nel mirino pure il simbolo della Rivoluzione degli ayatollah, il mausoleo dedicato a Khomeini. Arriva la rivendicazione dell'Isis, tramite i consueti dubbi canali. E' un messaggio in perfetto stile mafioso. Come quelli di Cosa Nostra durante la stagione delle bombe e degli omicidi eccellenti. Chi tocca gli interessi sauditi nella regione si ritrova sangue e terrore in casa. Chi non si allinea ai dettami delle altre petromonarchie del Golfo, della nuova "Nato araba" voluta da Trump e gradita ad Israele, deve fare i conti con la furia dei picciotti takfiri, finanziati ed addestrati per uccidere nel modo più eclatante possibile, lasciando sul posto la firma.

Il governo iraniano ha ottenuto delle indiscutibili vittorie diplomatiche e militari negli ultimi mesi. Grazie al suo sostegno ed a quello dei russi, l'esercito siriano del presidente Assad sta stringendo il cerchio attorno ai terroristi tagliagole. Idem in Iraq, dove il governo è da tempo sotto la sfera d'influenza di Teheran e le milizie sciite sono state determinanti per infliggere all'Isis pesanti scoppole. In Libano Hezbollah rafforza le sue posizioni e continua a mandare volontari in difesa di Damasco, mentre nello Yemen i ribelli Huthi resistono nonostante la ferocia degli attacchi sauditi. Si muove qualcosa pure in Palestina: dopo la rottura per divergenze sulla guerra in Siria, Hamas torna ad usare toni più concilianti verso l'Iran. Ma la ciliegina sulla torta è la spaccatura tra i regimi d'ispirazione wahabita del Golfo Persico, con il Qatar additato da Riad, Emirati e Bahrain di finanziare il terrorismo. Accusa tutt'altro che priva di fondamento, sia chiaro, ma che - sulla bocca degli Al Saud - suona un po' come il bue che dice cornuto all'asino.

In realtà, la colpa della casa regnante di Doha è di aver rafforzato le relazioni diplomatiche ed economiche con l'Iran (e la Russia) e di aver cambiato parzialmente posizione sulla Siria (seguita a ruota dalla sua potente tv satellitare Al Jazeera). Una frattura notevole nel fronte sunnita. Che non poteva restare impunita. Uno "sgarro" che, però, soprattutto i sauditi non possono far pagare col sangue direttamente al Qatar. Per ora. Perché a 30 km a sud ovest della sua capitale ha sede la più grande base militare Usa del Medio Oriente, con 11 mila militari di stanza ed un centinaio di velivoli. Troppo rischioso e compromettente. Molto meglio colpire Teheran, sperando che il governo iraniano non trattenga i nervi e risponda alla gravissima provocazione. E che si inneschi quel circolo vizioso che porterebbe alla guerra contro gli ayatollah caldeggiata sin dall'inizio dall'amministrazione Trump. Guerra che si potrebbe combattere, solo per procura, già nelle prossime ore in Siria, con qualche sorprendente novità. Non è per nulla escluso che qualche formazione jihadista spalleggiata dal Qatar ora inizi a puntare i fucili contro gli ex alleati, terroristi anch'essi, che rispondono agli ordini di Arabia Saudita ed Emirati.

Sullo sfondo resta la pesante incognita della Turchia. Che farà Erdogan? Dopo l'iniziale silenzio, oggi qualcosa si è mossa. Ankara, la cui leadership dell'Akp è da sempre legata ai Fratelli Musulmani protetti da Doha, ha disapprovato ufficialmente le sanzioni contro il Qatar. E fa sapere che non se ne parla di rinunciare agli accordi economici siglati con quest'ultimo. La partita si complica. E sembra a tutti gli effetti una guerra di mafia tra clan rivali. In questo caso sono in gioco interessi miliardari, forse una delle ultime fette di torta prima che dell'economia fondata sul petrolio resti traccia solo sui libri di storia, e l'egemonia ideologica sulla galassia fondamentalista.

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