Domenico Losurdo - Il Piano Marshall e la Nuova Via della seta cinese: paragone più infelice non esiste

di Domenico Losurdo, Presidente dell'Associazione Marx XXI

Testo presentato al Forum «Cina e Ue. I nodi politici ed economici nell’orizzonte della “nuova via della seta” e di una “nuova mondializzazione”», Roma, 13 ottobre 2017.

Si ringrazia Marx21 per la pubblicazione


Più volte One belt one road, la nuova via della seta progettata dalla Repubblica popolare cinese è stata paragonata a una sorta di Piano Marshall con caratteristiche cinesi. Il paragone non potrebbe essere più infelice. A suo tempo il Piano Marshall segnò l’inizio della guerra fredda.

L’Unione sovietica e i paesi di orientamento socialista erano messi dinanzi a un esplicito ricatto: se non vogliono rinunciare alla tecnologia, ai crediti e agli scambi commerciali di cui hanno urgente bisogno, «i Soviet [devono] aprire la loro economia agli investimenti occidentali, i loro mercati ai prodotti occidentali, i loro libretti di risparmio agli amministratori occidentali», devono «accettare la penetrazione economica e mediale» dei paesi che si apprestano a costituire la Nato (Ambrose, 1997, p. 10).

Chiaro e esplicito è il ricatto: o integrazione subalterna nel mercato mondiale capitalistico oppure condanna a una politica di apartheid tecnologica e di embargo più o meno radicale. In questo senso, è lo stesso Truman a parlare del piano Marshall, che dà un poderoso sviluppo alla globalizzazione tra le due rive dell’Atlantico, come l’altra faccia della medaglia della politica di «contenimento» (Ambrose, 1997, p. 10).

La globalizzazione nell’ambito dell’Occidente andava di pari passo con la guerra economica contro i nemici dell’Occidente. Era una guerra economica che colpiva in modo particolarmente pesante la repubblica popolare cinese. L’amministrazione Truman persegue un obiettivo, così chiarito da un autore statunitense che descrive in modo simpatetico il ruolo di primo piano svolto nel corso della guerra fredda dalla politica di accerchiamento e strangolamento economico messa in atto da Washington ai danni della Repubblica Popolare Cinese: occorre che essa «subisca la piaga» di «un generale tenore di vita attorno o al di sotto del livello di sussistenza», occorre condurre un paese dai «bisogni disperati» verso una «situazione economica catastrofica», «verso il disastro» e il «collasso» 1. Ancora agli inizi degli anni ’60 un collaboratore dell’amministrazione Kennedy, e cioè Walt W. Rostow, si vanta del trionfo conseguito dagli USA, i quali sono riusciti a ritardare lo sviluppo economico della Cina almeno per «decine di anni».

Se il piano Marshall segnava l’inizio della guerra fredda, la nuova via della seta si propone di sventare il pericolo di una nuova guerra fredda che si profila all’orizzonte, dando impulso a un generalizzato sviluppo economico (in particolare del Terzo Mondo) e promuovendo una nuova e più organica globalizzazione, fondata non solo sugli scambi commerciali ma anche sul dialogo tra le diverse culture. A tale prospettiva i nostalgici della guerra fredda contrappongono la diplomazia dei valori; celebrano i valori dell’Occidente in contrapposizione ai valori (o disvalori) del mondo extra-occidentale. Ne scaturisce un discorso non solo manicheo ma anche essenzialista, che favoleggia di un Occidente quale permanente incarnazione dell’«individualismo» e dei principi della libertà e dignità dell’individuo.





Contro questa mitologia diamo uno sguardo alla storia reale. Nell’Europa dell’Antico regime, in cui a esercitare il potere era l’aristocrazia ereditaria, gli illuministi guardavano con ammirazione e invidia alla Cina: in questa «società confuciana», dove «l’apprendimento era la chiave per farsi strada», ci si avvaleva del concorso pubblico per selezionare i funzionari e quindi a svolgere un ruolo preminente, piuttosto che la presunta nobiltà del sangue, erano la «competizione» e il merito individuale. Se poi nel quadro non ci limitiamo a far intervenire esclusivamente la comunità bianca, il risultato del confronto può essere del tutto inaspettato: negli Usa a lungo, molto a lungo (e nel Sud ancora in pieno Novecento) l’appartenenza di razza è stata il criterio decisivo per determinare la sorte dell’individuo.


La «competizione» e l’individualismo hanno svolto un ruolo più importante nella repubblica nordamericana o nella Cina confuciana? Piuttosto che pronunciarsi per l’uno o l’altro corno del dilemma e lasciarsi imprigionare dallo schema tendenzialmente fondamentalista dello «scontro delle civiltà», conviene far valere il principio della «circolazione del pensiero» tra le diverse culture: una volta abbattuti (grazie alle rivoluzioni anticoloniali e alle lotte dei popoli di origine coloniale) il sistema coloniale mondiale e negli Usa lo Stato razziale e il regime di white supremacy, può ben darsi che la «competizione» e l’individualismo abbiano raggiunto il loro compimento in Occidente. Resta però un fatto: se per individualismo s’intende il riconoscimento della dignità dell’individuo nella sua universalità, esso non può essere pensato senza il contributo rappresentato dalla sfida di culture e popoli estranei all’Occidente e con esso spesso in lotta.


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