Così il blocco nord europeo impedisce all’Italia di uscire dalla crisi


di Pasquale Cicalese per Marx21.it



Giovedì 15 febbraio sono usciti i dati definitivi del commercio estero italiano. I livelli sono da record storico, con 448 miliardi di euro di export, +7,4% in valore e +3.1% in volume. Ricordiamo che alla fine del 2016, a seguito dell’elezioni di Trump, il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda presagiva un crollo del mercato mondiale, tesi clamorosamente smentita dai fatti, visto che il commercio mondiale ha avuto il più alto picco degli ultimi quattro anni. Il riposizionamento degli attori economici mondiali si può evincere dal fatto che nel 2017 l’export italiano è cresciuto soprattutto in Cina, +22%, in Russia, + 19,3%, e in Usa +9,7%. A distanza di un ventennio, l’Italia scopre la Cina come mercato di sbocco, segno di miopia della classe dirigente italiana, in particolare imprenditoriale, e il dato è significativo perché per la prima volta il deficit con la Cina si riduce, passando da 16,2 miliardi del 2016 a 14,9 miliardi del 2017.



Altro dato, la Russia è ritornata, nonostante le sanzioni, a cui l’imprenditoria italiana non ha voluto porre un’azione di contrasto e di superamento, segno di pavidità e ottusità italica. Ma è anche clamoroso il dato statunitense: tutti i politici europei e i media prefiguravano per il 2017 un crollo delle esportazioni verso gli Usa, a seguito dei proclami protezionisti idi Trump. Niente di tutto questo: per quanto riguarda l’Italia, il nostro surplus verso gli Usa è passato da 22 miliardi a…..25 miliardi su di un totale di surplus commerciale pari a 47,5 miliardi, il secondo nella storia del paese dopo il record di 49 miliardi del 2016, dovuto, quell’anno, soprattutto al crollo delle importazioni.


Ma tutti i Brics sono andati bene nel 2017, segno che questo blocco incide sempre più nel mercato mondiale. La nota stonata sono i paesi Opec, dove c’è stata una forte diminuzione di export e il saldo è passato dal positivo di 3,4 miliardi del 2016 a uno negativo di 4,3 miliardi del 2017. Se vediamo bene, fuori dall’area euro l’Italia da diversi anni presenta performance non indifferenti, segno che almeno una parte della nostra produzione industriale è apprezzata nel mondo e soprattutto richiesta. La politica di austerità ha portato poi, con la deflazione salariale, che dura ormai da 26 anni, ad un aumento della competitività del 10% a partire dal 2010, secondo l’imprenditore Auricchio, presidente di Assocamereestero.

Dove l’Italia va male? Guarda caso in area euro: qui, nonostante un costo del lavoro che si è abbassato rispetto agli altri paesi , il passivo aumenta, passando da 3,5 miliardi del 2016 a 8,2 miliardi del 2017. In particolare, due sono i paesi che per gran parte incidono sul passivo: l’Olanda e la Germania. Con la prima il passivo è passato da 10,2 miliardi a 12,5 miliardi del 2017. Con la Germania, il passivo passa da 6,7 miliardi a 9,4 miliardi. Esportiamo, anche se sotto la media totale, ma importiamo maggiormente. A ciò si aggiunge il passivo con il Belgio di 4,3 miliardi del 2017. Per contraltare, il surplus dell’Italia con Uk, Francia e Spagna raggiunge la cifra di 24 miliardi di euro. E’ chiaro dunque che il blocco nord europeo impedisce all’Italia di uscire dalla crisi giacché la deflazione salariale in quei paesi si presenta ancora maggiore rispetto a quella italiana.

E’ inutile abbassare i salari, se gli altri continuano a farlo focalizzandosi sempre più su enormi surplus commerciali. Ciò ha a che fare dunque con una questione fondamentale: l’euro. Per risolvere il problema occorre che gli altri paesi aumentino dopo decenni i salari in maniera consistente, altrimenti l’opzione exit è l’unica via. Ma siccome non hanno intenzione di cambiare, l’uscita dall’euro si presenta come l’unica possibile. C’è da fare un’altra considerazione: l’enorme deficit che abbiamo con l’Olanda non è solo dovuto al gas, ma al ruolo del porto di Rotterdam, da cui passano buona parte delle merci destinate all’Italia e con provenienza extra Ue. Questo perché da decenni non si attrezzano i porti italiani, anche in vista della via della seta, e non si potenziano perché in questi decenni non si sono fatti investimenti pubblici. Perché? Le regole europee li escludono, soprattutto dopo il Fiscal Compact, che serve ad impedire all’Italia di attrezzarsi con i nuovi scenari del mercato mondiale e a dipendere dai porti del Nord Europa.


Di tutto si è parlato durante questa squallida campagna elettorale, tranne che di queste cose. Segno dei tempi.

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