Il governatore Visco sembra non voler seguire la ricetta confindustriale di Bonomi



di Kartana

Per caso Banca d’Italia, dopo la Fed, e dopo 40 anni di idiozie, basa la crescita futura sul plusvalore relativo?


Lo chiediamo perché sembra che il governatore Visco, ieri a Trieste, abbia detto che non ci si può più basare sulla competitività di costi e prezzi (plusvalore assoluto), come ribadito non più di una settimana fa da Bonomi di Confindustria, ma su sapere, conoscenza, istruzione, investimenti in ricerca e sviluppo, ecc.


Inoltre Ignazio Visco fa sapere che, sebbene la produttività sia bassa nella piccole imprese – e su questo esistono seri dubbi, perché gli indicatori non rilevano alcune tendenze delle Pmi italiane – la produttività delle imprese medio grandi italiane è superiore a quella francese e tedesca.


Il che è sorprendente solo chi si nutre delle sciocchezze quotidianamente scritte dagli opinionisti un tanto al chilo stipendiati da Confindustria, quelli che spacciano per “produttività” l’aumento dell’orario e dell’intensità del lavoro.


La domanda che bisogna porsi è infatti questa: visto che in 30 anni (quasi) nessuna impresa ha fatto veri investimenti sulle tecnologie produttive, l’aumento di produttività è arrivato principalmente dal fattore lavoro. Insomma, i lavoratori lavorano come pazzi, ben più dei colleghi tedeschi e francesi, ricevendo però salari inferiori, anche del 50%.


Vista la centralità delle imprese contoterziste che producono componenti per le filiere che fanno capo in Germania, la “competitività” che le imprese cercano è dunque rispetto alla Polonia, alla Romania, alla Slovacchia o l’Ungheria. Sul “costo del lavoro” e nient’altro.


E’ un processo che va avanti da 30 anni, ripetiamo. Ciò significa che dagli accordi di Maastricht (1992) e ancora più dall’introduzione dell’euro, l’estrazione di valore, in senso assoluto, è stato enorme per le imprese italiane. Ma tutto questo valore in più è stato riversato in attività finanziarie, visto che ci sono ben 2.300 miliardi di liquidità delle imprese investite all’estero.


Volendo usare il linguaggio “colpevolista” del pessimo presidente di Confindustria, il freno vero allo sviluppo del Paese è la classe imprenditoriale, abituata a sfruttare il fattore lavoro senza investire, dunque senza progredire né come imprese né come società.


Scegliendo il bocconiano Bonomi, le imprese hanno dimostrato di voler continuare con più ferocia su questa strada ormai senza uscita (con la pandemia e soprattutto l’aumento della competizione fra grandi aree continentali, la “crescita fondata sulle esportazioni” non ha futuro).


Il Governatore, che ha capito meglio di altri le conseguenze a breve termine della “svolta” della Federal Reserve, comincia così a battere il ferro perché la più cieca delle “classi dirigenti” continentali ne prenda atto.


Negli anni Novanta, Sergio Bologna scrisse che nella Fiat degli anni Settanta, attraversata da scioperi continui, la produttività era alta e il grado di innovazione pure.


Facciamo dunque il tifo per una rinnovata e salutare lotta di classe. Ritroveremmo, se non altro, il sentiero della crescita fondata sul plusvalore relativo, ossia sulla modernità. Sempre “capitalismo”, certo, ma meno straccione e retrogrado.


Bonomi è “il vecchio” e lo stesso Visco ieri sembra confermarlo.

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