Tra le 500 aziende più grandi del globo 82 sono cinesi e di proprietà pubblica

di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli

La rivista statunitense Fortune non ama certo il comunismo e non nutre alcuna simpatia per la proprietà statale e la “mano” pubblica, se non quando tali strumenti salvano i profitti privati e il processo di accumulazione capitalistico.
Ma persino Fortune ha ammesso che durante il 2020, in base ai dati esposti nella lista “Fortune Global 500”, ben 82 delle 500 maggiori aziende del mondo per fatturato risultano di proprietà pubblica, statale o municipalizzata, oltre a essere cinesi: quindi più di una su sei.

Sempre secondo l'insospettabile e anticomunista rivista Fortune, nel corso del 2020 il secondo ente produttivo mondiale era rappresentato dalla State Grid: poco conosciuta in occidente, certo, ma di proprietà statale e con un fatturato di 383 miliardi di dollari, quindi circa un sesto del PIL italiano.
In quarta posizione si trova invece l'azienda pubblica China National Petroleum con un fatturato equivalente a 379 miliardi di dollari, mentre al quinto posto della classifica si trova la cinese e statale Sinopec Group con un giro d'affari pari a 407 miliardi di dollari.
A differenza di larga parte della sinistra occidentale, il bisettimanale Fortune si è accorto del serio problema politico e ideologico costituito dall'ingombrante presenza delle 82 grandi aziende pubbliche cinesi: un vero e proprio elefante alieno all'interno del negozio di cristalli del reale capitalismo di stato, con la sua regola generale della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite.

Quindi il 2 settembre del 2021 la rivista in oggetto ha pubblicato un polemico articolo intitolato “Bigger isn't always better for China's state-owned giants”, sostenendo che le principali imposte pubbliche cinesi non esprimono un livello medio di profitti paragonabile a quello delle multinazionali e banche occidentali.
Ma il ruolo del settore statale in Cina risulta e si rivela per l'appunto assai diverso dalle regole del gioco del reale capitalismo di stato contemporaneo: sono i bisogni e le esigenze collettive, e non invece i profitti di una famelica minoranza di azionisti e di manager a dettare il corso degli eventi nel gigantesco paese asiatico in esame.

Fin dal 2009 -2010, del resto, gli analisti più avveduti del capitalismo americano si erano resi conto di tale concretissima dinamica nel processo di sviluppo dei rapporti di produzione cinesi.

Il 16 novembre del 2010 J. Dean scriveva sul Wall Street Journal, la “bibbia” dei capitalisti di tutto il mondo, rilevando con preoccupazione come il governo e lo stato cinese possiedano “tutte le maggiori banche in Cina, le tre maggiori compagnie del settore petrolifero e delle telecomunicazioni, le più grandi aziende nei mass media”. Sempre il Wall Street Journal ha notato che i beni di proprietà delle imprese statali nel 2008 equivalevano a ben 6.000 miliardi di dollari, il 133% del prodotto nazionale lordo cinese di quello stesso anno, e in percentuale più di cinque volte del valore accumulato dalle imprese pubbliche (ferrovie, ecc.) francesi, il paese a sua volta più “dirigista” del mondo occidentale.
Una seconda sorpresa è arrivata il 7 luglio del 2010. Un professore dell’università di Yale, Chen Zhiwu, ha rilevato sull’International Herald Tribune (pag. 18) che “lo stato cinese controlla tre quarti della ricchezza in Cina…”: il 75%, quindi, non lo 0,1% del processo produttivo del gigantesco paese asiatico.
A sua volta il giornalista Isaac Stone Fish, sulla rivista statunitense Newsweek del 12 luglio 2010, ha attirato l’attenzione sulle “imprese di proprietà statale, che dominano in modo crescente l’economia cinese…”: pertanto negli ultimi anni si assiste a un processo di incremento del peso specifico del settore pubblico all’interno della Cina, non certo alla sua riduzione.
Altro microshock. Il 28 settembre del 2009 il sito China Stakes rilevava che, tra l’aprile e il settembre di quell’anno, il governo e le autorità locali della provincia dello Shanxi, (la “capitale del carbone” della Cina) avevano nazionalizzato ben 2840 miniere appartenenti in precedenza a investitori privati, autoctoni o stranieri, con indennizzi di regola ritenuti da questi ultimi “insoddisfacenti”.

Tang Xiangyang, sulla rivista Economic Observer News del settembre 2009, ha preso in esame dal canto suo l’elenco che viene diffuso ogni anno in Cina sulle 500 principali aziende del paese, edito tra l’altro a partire dal 2002 da un organismo che comprende al suo interno anche tutte le principali imprese private, autoctone o multinazionali, che operano in esso.

Con tono sconsolato, Tang Xiangyang ha dovuto intitolare il suo articolo “I monopoli di stato dominano la top 500 della Cina”, notando subito che durante il 2008 tutte le prime 43 posizioni nell’elenco in oggetto erano occupate… da aziende, industrie e banche statali, completamente o a maggioranza in mano al settore pubblico. Le imprese private e i monopoli capitalistici, tanto decantati in occidente, svolgevano il ruolo di “cenerentola” nel processo produttivo cinese, tanto che Tang Xiangyang è stato costretto a rilevare con una certa angoscia come la più grande azienda privata cinese, la Huawei Tecnologies con base a Shenzen, occupasse solo il 44° posto nella lista; dato ancora peggiore per il povero Tang, solo un quinto e solo cento delle “top 500” in Cina erano aziende capitalistiche, la cui percentuale sull’importo globale delle vendite ottenute nel 2008 dalle prime cinquecento imprese risultava pari circa a un deludente … 10%, a un modesto decimo del reddito globale espresso da queste ultime nella Cina del 2008.

In ogni caso, quindi, anche rispetto ai rapporti sociali di produzione della Cina contemporanea vale il detto “a buon intenditor poche parole, ma tanti fatti concreti”.

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