di Diego Angelo Bertozzi
La presidenza di Duterte nelle Filippine, soprattutto il processo di riavvicinamento a Pechino (e in parte Mosca), qualche problema a Washington lo crea senza dubbio: un'eccessiva indipendenza di un Paese strategico in acque "surriscaldate" come quelle del Mar cinese meridionale, rischia di minare l'intera strategia che supporta il "Pivot to Asia". Per questo sulle rive del Potomac non poteva essere trascurata la possibilità di "facilitare" un cambio della guardia a Manila, manifestando pubblicamente e senza pudore che l'operazione per l'ennesimo "regime change" godeva di basi solide: si pensi alla rivista Foreign Policy che aveva ricordato a Duterte come l'esercito filippino fosse da sempre istruito e vicino a quello statunitense, e come la stessa "società civile" filippina fosse storicamente influenzata dal modello statunitense. Ma non è tutto: alla fine del 2016 il Manila Times portava alla luce il cosiddetto "Piano Goldberg" (dell'ex ambasciatore statunitense nelle Filippine), un vero e proprio programma per un cambio di governo contenente alcune raccomandazioni quali: procedere all'isolamento politico e commerciale del Paese, migliorando i rapporti con altri Paesi Asean; approfondire i legami con l'opposizione e con funzionari pubblici e altri gradi militari che non condividono la politica presidenziale; utilizzare i mezzi di comunicazione per insistere sulla pericolosità dei rapporti con Pechino e Mosca; assistere i gruppi di opposizione attraverso i programmi Usaid e trovare il sostegno della Chiesa cattolica; creare divisioni nella stessa cerchia politica presidenziale, soprattutto appoggiando personalità definibili di "sinistra" più attentI alla difesa dei "diritti umani".
Adottato o meno dalla Casa Bianca, è fuor di dubbio che alcune di queste "raccomandazioni" trovino un certo riscontro.
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