Fulvio Scaglione - Occidente, occhio con il mito dei Peshmerga


di Fulvio Scaglione



Si registra con regolarità nell’opinione pubblica occidentale, orfana di grandi cause e di esempi trascinanti, una sete di mito che, applicata alle vicende del Medio Oriente, aiuta a prendere abbagli clamorosi. L’ultimo esempio è quello dei peshmerga del Kurdistan, insediati a prescindere sullo scranno degli eroi, senza alcun rispetto per la realtà dei fatti.

I peshmerga nel 2014 se la diedero a gambe da Mosul e dalla Piana di Ninive, lasciando la popolazione civile al suo destino (e con essa anche i cristiani), tanto quanto il deprecato esercito regolare iracheno. La ragione era semplice: al governo regionale del Kurdistan quell’area non interessava, troppo lontana e troppo povera di petrolioper sacrificare le vite dei combattenti solo in nome dell’ideale anti-Isis.

Quando le milizie del Califfato si avvicinarono al Kurdistan, invece, i peshmerga diedero ottima prova di sé. Ma attenzione: il grosso delle forze curde, già ai tempi della feroce battaglia per Kobane, era formato dalle Unità di protezione popolare, ovvero dai reparti di curdi siriani di quello che poi sarebbe diventato famoso come Rojava.



I peshmerga comunemente intesi, cioè quelli del Kurdistan iracheno, hanno combattuto con valore quando lo Stato islamico si è avvicinato a Kirkuk, città che un tempo aveva maggioranza curda, poi fu arabizzata a forza da Saddam Hussein e da qualche anno è oggetto delle attenzioni del governo regionale del Kurdistan, che ha varato una politica di “ricurdizzazione” con lo scopo neanche celato di annettere la provincia, ricca di greggio. Petrolio che avrebbe dovuto essere anche il lubrificante economico dell’indipendenza proclamata con il referendum del 25 settembre e poi sventata dal governo centrale iracheno.

I peshmerga, quindi, si sono battuti a lungo e con pesanti perdite per Kirkuk, che per loro aveva un valore ideale (la considerano un pezzo di patria da recuperare) e anche un valore concreto, economico. Ma attenzione: i peshmerga, questi peshmerga, non sono un corpo compatto, fedele solo alla patria. Al contrario sono divisi in due, una parte che obbedisce agli ordini del Partito democratico del Kurdistan di Masoud Barzani (il leader che ha organizzato il referendum del 25 settembre e ha poi rassegnato le dimissioni da presidente del Kurdistan) e l’altra che risponde all’Unione patriottica del Kurdistan fondata da Jalal Talabani.

Le due famiglie, diventate proprietarie del Kurdistan, si dividono ogni cosa: cariche, interessi economici, ordini professionali, e anche i peshmerga. Ed è stata proprio questa divisione a provocare la loro rapida ritirata quando l’esercito iracheno ha deciso di riprendere il controllo di Kirkuk e dei campi petroliferi: il Partito e l’Unione non erano d’accordo sulla strategia da adottare (resistere o trattare), così il fronte curdo si è disgregato.

Da noi, al contrario, si è ormai arrivati all’equazione “curdo = peshmerga” e viceversa, il che costituisce un’approssimazione da dilettanti. Tutto questo per dire che l’esaltazione per i peshmerga, lungi dall’essere una manifestazione di solidarietà con una grande forza democratica, è stata una delle solite forzature occidentali. Quelle che, invece di spiegare le cose, creano confusione e mistificazioni a volte interessate. Il Medio Oriente ha logiche contorte e spesso violente, ma siamo noi a renderlo incomprensibile.

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