I profitti delle grandi imprese salgono e i consumi delle famiglie scelgono

di Michele Blanco*

Con la crisi energetica e l’inflazione, l’aumento del costo dell’energia è stato uno dei problemi principali degli ultimi due anni. E le conseguenze si sono viste anche sui conti delle società del settore: basta andare a vedere il balzo compiuto da due giganti italiani, Enel ed Eni, nella classifica delle maggiori aziende al mondo per fatturato, cioè la Global 500 stilata da Fortune.

Nel ranking 2023 (che si basa sui bilanci del 2022), in media, molte società energetiche di tutto il mondo hanno aumentato i ricavi di circa il 50%. Come Saudi Aramco, che insegue Walmart al primo posto della classifica. Inoltre, cambia l’ordine delle aziende italiane che fanno parte della lista. Non è più Generali a guidarle: è terza, passando dalla posizione numero 72 alla 137 del ranking. Sorpassano il Leone di Trieste sia Enel che Eni: il gigante elettrico è la prima italiana per fatturato, e passa dalla posizione numero 90 alla 59. Un balzo ancora superiore lo fa Eni che scala addirittura 50 posizioni, dalla 111 alla 61.

Enel: Il gigante elettrico è la prima italiana per ricavi da vendite nel 2022, e passa dalla posizione numero 90 alla 59 nel ranking di quest’anno. Un balzo compiuto grazie a un aumento alla voce ricavi arrivati a 147,79 mld di dollari, dai 104 dello scorso anno, dopo l’aumento del 40% dell’anno precedente (il Gruppo aveva scalato 28 posizioni). Insomma, se i conti 2021 raccontavano il rimbalzo post pandemico, quelli del 2022 vanno oltre, facendo sfiorare ad Enel la top 50. La stessa società ha commentato i risultati dello scorso anno indicando che l’aumento dei ricavi era “riconducibile ai maggiori volumi di energia prodotti, intermediati e venduti in un contesto di prezzi medi crescenti”.

Eni: Un balzo ancora superiore rispetto a Enel lo fa il Cane a 6 zampe, che scala addirittura 50 posizioni, dalla 111 alla 61. Come per l’altro colosso italiano, anche Eni è al secondo balzo consecutivo: nel 2021 post-pandemico (ranking 2022) aveva scalato addirittura 105 posizioni, registrando ricavi da vendite da 91 mld di dollari (+79%). Nel 2020, con la pandemia, i ricavi erano crollati del 37% e i profitti del 6.000%.

Quindi Gli stipendi calano, i profitti delle aziende inesorabilmente salgono e spingono l’inflazione. Per chi non lo avesse ancora capito, dopo innumerevoli indagini, arriva un corposo promemoria dell’Istat. Dallo studio diffuso oggi emerge che nel 2022 il reddito delle famiglie è salito in valore nominale del 5,5% ma è inesorabilmente sceso in valori reali (ossia tenendo conto dell’aumento dei prezzi) dell’1,6%. Poiché per fare la spesa (e comprare qualsiasi altra cosa) si deve spendere di più, la quota dei redditi che si mettono da parte scende. La propensione al risparmio delle famiglie è così scesa dal 13,8% del 2021 all’8% del 2022, riportandosi ai livelli del periodo antecedente la crisi.

Sempre peggio. Prosegue la discesa dei consumi delle famiglie italiane strette tra prezzi che corrono e stipendi immobili. L’Istat segnala oggi che in settembre le vendite al dettaglio sono scese dello 0,3% in valore rispetto ad agosto e dello 0,6% in volume. Rispetto al settembre 2022 invece si è speso l’1,3% in più ma si è comprato il 4,4% in mendo in quantità. L’Istat spiega che la flessione congiunturale (ossia rispetto al mese prima) delle vendite al dettaglio a settembre è “determinata da entrambi i settori merceologici”, beni alimentari (-0,2% in valore e -0,6% in volume) e non alimentari (rispettivamente -0,5% e -0,6%). “A livello tendenziale (cioè in confronto allo stesso mede dell’anno prima, ndr), si continua a registrare un aumento delle vendite in valore, sebbene in progressivo rallentamento, che si contrappone ad una diminuzione di quelle in volume”, continua l’istituto di statistica. Le vendite dei beni alimentari crescono del 5,5% in valore e diminuiscono del 3,1% in volume, su base annua; quelle dei beni non alimentari calano sia in valore (-1,8%) sia in volume (5,2%).

Tra i beni non alimentari, elettrodomestici, radio, tv e registratori registrano il calo più consistente (-7,9%), seguiti dalle dotazioni per informatica, telecomunicazioni e telefonia e abbigliamento. Per una volta i dati mensili peggiori interessano il commercio elettronico i cui ricavi scendono del 2,6% rispetto all’anno prima. Soffrono comunque anche i piccoli negozi con incassi giù dell’1,2%. Per l’e-commerce si tratta della prima contrazione da oltre un anno, a partire da giugno 2022, mentre per le imprese operanti su piccole superfici è il terzo calo consecutivo. Le vendite al dettaglio crescono invece nella grande distribuzione (+4% a settembre) e al di fuori dei negozi, per esempio del commercio ambulante (+1,6%). I supermercati, per questo mese, battono i discount alimentari con un incremento degli scontrini del 6,8% contro uno del 6,3%. “I dati di settembre confermano ancora una situazione di debolezza dei consumi,”, questa l’analisi dei dati fatta da Federdistribuzione. Per Assoutenti i dati “dimostrano ancora una volta come l’emergenza prezzi stia modificando profondamente le abitudini delle famiglie italiane, determinando non solo un drastico taglio della spesa, ma anche un cambiamento nei comportamenti dei cittadini”.

La situazione di paese socialmente molto più fragile rispetto anche a solo pochi anni fa. L’aumento dei costi dell’energia, in particolare dei carburanti, i rincari dei prezzi con l’inflazione molto alta che colpisce principalmente i beni di prima necessità, cioè necessari a tutti per sopravvivere come pasta, pane, alimenti in generale, con l’incremento dei tassi di interessi, che colpiscono chi ha dei mutui da pagare, solitamente fatti per l’acquisto della prima casa, hanno iniziato ad avere effetti negativi e preoccupanti sulla struttura sociale ed economica del nostro paese. Dove da molti anni per il fatto che i salari sono bassi, anche chi lavora stabilmente, in molti casi, ha grandi difficoltà ad avere una vita tranquilla e serena. L’Italia è sempre più una realtà altamente polarizzata economicamente e socialmente, con il rafforzamento dei ceti privilegiati, delle classi sociali più ricche, lo “sfarinamento” del ceto medio e l’enorme ingrossamento e impoverimento dei ceti medio bassi e popolari, che hanno sempre meno disponibilità economiche. L’Istat, dati settembre 2023, ha confermato la caduta del reddito prodotto (il Pil) nel secondo trimestre. Anzi, ha rincarato la dose: -0,4% invece di -0,3%. I dati disponibili sul terzo trimestre non sono buoni. Nel mese di luglio l’occupazione è scesa e in agosto il clima di fiducia delle imprese si è indebolito, confermando una tendenza in corso da diversi mesi.

Lo scatto inflattivo e il caro bollette si è scaricato maggiormente sui ceti popolari e medio bassi. Gli incrementi dei prezzi sono stati maggiori, in termini percentuali, nei beni più difficili da tagliare, necessari, come quelli alimentari. Un quadro che, in termini previsionali, conduce a ipotesi di riduzione anche consistenti del reddito disponibile per le famiglie. Il 20 per cento degli italiani arriva a prevede per il prossimo futuro una riduzione del reddito tra il dieci e il venti per cento, mentre il 21 per cento ipotizza un calo compreso tra il venti e il trenta per cento. Il 13 per cento delle famiglie, infine pensa che la decurtazione di reddito potrebbe essere tra il trenta e il cinquanta per cento. La quota di quanti prevedono tagli così consistenti sale dal 13 al 24 per cento nei ceti popolari, mentre in quel che resta del ceto medio e nella classe sociale più ricca, abbiamo ovviamente una maggiore stabilità. Nel nostro paese le disuguaglianze sono da decenni in costante crescita, ma la situazione attuale rischia di peggiorare e portare a un pericoloso allargamento della forbice sociale con l’aumento delle ingiuste disuguaglianze, incompatibili con una nazione che si possa definire seria e civile.

Ma se a questo quadro non idilliaco aggiungiamo le false attestazioni di meritocrazia la situazione si fa ancora peggiore. Infatti l’Italia è il paese dell’Unione Europea dove i laureati faticano di più a trovare un lavoro, quando lo trovano non è assolutamente adeguato ai livelli di studio conseguiti e lo stipendio è la metà o meno, se confrontato a quello degli altri paesi. A livello europeo, circa 8 giovani in possesso di laurea su 10 hanno ottenuto un’occupazione in una fascia di tempo che va da 1 a 3 anni dal conseguimento del titolo di studio più alto. Si tratta però di un dato che varia significativamente da paese a paese. Tra gli stati membri, l’occupazione più alta si registra in Lussemburgo, dove il 93,4% dei lavoratori che hanno ottenuto recentemente il titolo ha un posto di lavoro. Il paese che invece riporta l’incidenza minore è tristemente l’Italia (65,2%), Fonte Eurostat. In un quadro educativo in cui diventa sempre più fondamentale insegnare l’importanza dell’apprendimento permanente a qualsiasi età, le università continuano a giocare un ruolo importante per garantire un’occupazione, ma in Italia questo conta sempre meno. A livello europeo, ci sono delle iniziative per sostenere e indirizzare l’ambito dell’istruzione superiore per fornire le competenze che sono direttamente spendibili sul mercato del lavoro.

Un quadro che non si può risolvere a colpi di mancette, come molti dei governi che si sono succeduti hanno mostrato di fare.

Un discorso a parte è stata l’introduzione del Reddito di cittadinanza, che è presente in tutte le nazioni europee con importi spesso più importanti di quelli che erano finora previsti nel nostro paese, viene introdotto per la prima volta in Italia nel 2019 esso ha spostato, come mai prima, nella storia della nostra nazione, 8 miliardi di euro l’anno dalla fiscalità generale ai due decimi più poveri della distribuzione del reddito, riuscendo, come non avveniva dagli anni 90 del secolo scorso, ad ottenere una riduzione della disuguaglianza tra il 20% della popolazione più ricca e il 20% dei più poveri nel Paese. Ma tutto questo, evidentemente, era un qualcosa di troppo positivo per le persone povere e l’attuale governo, particolarmente punitivo contro la povera gente, ha provveduto ad eliminare questa misura che a qualsiasi persona di buon senso, o almeno informata su quando avviene nel resto del mondo civile, sembrava utile.

Sono quindi necessarie delle azioni concrete sul lungo periodo per garantire un accesso all’occupazione produttiva, giustamente retribuita, occorre un ripensamento complessivo del modello di welfare e, soprattutto sul fronte del lavoro, una strategia orientata alla stabilità lavorativa, alla qualità degli stipendi e alla totale de-precarizzazione, per tutti i lavoratori.

*Questo articolo è stato pubblicato su https://www.eguaglianza.it/

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