Il voto Usa e i fantasmatici hacker russi



da PIccole Note

È stato reso pubblico il rapporto delle agenzie americane che accusa la Russia di aver influenzato, tramite l’hakeraggio di informazioni sensibili, il voto delle presidenzialiUsa. Ed è subito controversia. Donald Trump minimizza, mentre i suoi avversari, che non demordono nonostante siano stati battuti nel voto popolare, cavalcano l’asserito scandalo.

Al di là del dibattito politico, c’è da dire che la documentazione resa nota è alquanto labile. Lo fa notare, sulla Stampa dell’8 gennaio Carola Frediani in un articolo in cui dettaglia il contenuto del report e accenna alla posizione più «moderata» della Nsa rispetto alle altre Agenzie (cosa che comunque fa pensare, stante che la National security agency è l’apparato di sicurezza più autorevole degli Stati Uniti).

«“Dal punto di vista delle prove tecniche e informatiche, il report appena uscito non aggiunge nulla di nuovo. Chi era scettico probabilmente rimarrà tale”», conclude la Frediani.

Val la pena aggiungere una chiosa: «non aggiunge nulla» rispetto a quanto uscito finora vuol dire che non c’è nulla, dal momento che fino alla pubblicazione del report sono state formulate accuse più che generiche, senza il sostegno di alcuna prova.

Alla stessa conclusione arriva Calder Walton, storico del Belfer Center of International Affaires di Harvard, in un’intervista alla Repubblica dell’8 gennaio nella quale pure sostiene a spada tratta la veridicità delle accuse delle agenzie Usa.

Tanto egli deve giustificare la mancanza di prove con questa argomentazione: «“Chi dice che le accuse non sono sostanziate sbaglia: questo genere di report non mette a repentaglio le fonti, non svela i metodi. Mette nero su bianco i risultati di accurate analisi”».

Insomma, nel rapporto c’è, appunto, solo il risultato di asserite indagini, nient’altro. Un po’ quel che accadde per la armi di distruzione di massa irachene, quando l’accusa delle stesse agenzie statunitensi, che portò a una guerra, fu sostenuta senza mostrare al mondo alcuna prova.

Tutto si basava sull’autorevolezza della fonte, che certo non avrebbe dovuto avere alcun interesse a mentire, come invece fu dimostrato successivamente (dopo una guerra sanguinosa).

Val la pena riportare anche parte di un articolo di Lucia Sgueglia, pubblicato sulla Stampa dello stesso giorno, che, oltre a dar conto dell’ironia del Cremlino, che irride alla povertà delle accuse che gli sono rivolte, conclude così: «“A sottolineare le lacune del rapporto sono anche esperti di Russia occidentali non tacciabili di simpatie filo-Cremlino”».

«“Sul “Moscow Times”, Kevin Rothrock definisce “deludenti” e “ottuse” le argomentazioni Usa, almeno nella versione declassificata, evidenziando come molti passaggi sembrino copiati dalla stampa statunitense vicina ai Dem, e svela errori che fanno dubitare della conoscenza della realtà russa nelle “spie” Usa”».

«[…]““La montagna ha partorito il topolino” chiosa su Twitter il senatore Pushkov, evocando Saddam e le armi di distruzioni di massa. Persino Leonid Volkov, collaboratore dell’oppositore Alexey Navalny, esperto di tecnologie informatiche, è deluso: «Spero che la parte non desecretata della relazione sia a un livello più serio”».

Lo spionaggio è sempre esistito. Ma questo complottismo di ritorno delle agenzie Usa è alquanto stucchevole. Ricorda il passato: non tanto la Guerra Fredda, tante volte giustamente evocata, ma il maccartismo e la caccia alle streghe cui consegnò gli Stati Uniti d’America. Non fu una bella stagione per la democrazia statunitense, né per il mondo.

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