In ricordo di Ilio Barontini: operaio, comunista, partigiano, combattente internazionalista per la liberazione dei popoli

22 Gennaio 2024 12:00 Fabrizio Poggi


di Fabrizio Poggi


Il 22 gennaio 1951 muore, in un incidente d'auto alle porte di Scandicci, Ilio Barontini. Insieme a lui, perdono la vita altri due compagni della Federazione livornese del PCI: Otello Frangioni e Leonardo Leonardi.

In questa fase storica e politica, segnata, da un lato, dalla presenza in Italia di un governo fascio-leghista che sta portando all'estremo le scelte antipopolari dei precedenti governi liberal-retrivi, varando le misure più reazionarie, guerrafondaie, liberticide e affamatrici contro i lavoratori italiani, e, dall'altro, da una situazione internazionale foriera di un conflitto generalizzato, ricordare un combattente operaio, comunista, antifascista e internazionalista quale Ilio Barontini, rappresenta qualcosa di più di un semplice omaggio a una figura di spicco del movimento operaio italiano e internazionale. Significa indicare i valori su cui debba basarsi la vita e l'attività di un comunista impegnato nella lotta quotidiana contro il sistema capitalista, che alimenta di per sé oppressione dei popoli e pericoli di guerra.

Due momenti sembra opportuno mettere in rilievo nella vita e nell'attività di Ilio Barontini, onde evitare di cadere, sfogliandone la biografia per certi versi “romanzesca”, nell'errore di considerarlo un individuo affetto da “volontarismo” o “avventurismo romantico”, un “anarchico” insomma, che se ne va in giro per il mondo e si compiace di gettarsi nella mischia, ovunque ce ne sia una. Certo: alcune cronache biografiche parlano di un suo giovanile anarchismo di origine contadina, ereditato dal babbo, prima ancora della militanza socialista. Certo, non tutti avrebbero forse avuto l'ardimento, da lui dimostrato in diversi momenti della sua vita. Ma sarebbe sbagliato mettere in primo piano tali elementi, lasciando in ombra le caratteristiche fondamentali che spiccano nell'attività di Barontini e che scaturiscono principalmente dall'essere militante comunista, militante di un Partito comunista, il PCd'I, un Partito che opera sul piano nazionale, ma che che soprattutto è sezione della III Internazionale.

Sin dal suo primo espatrio nel 1931 (che poi si protrarrà per quindici anni, portandolo in Francia, Unione Sovietica, Spagna, Etiopia e ancora Francia), poco dopo il IV Congresso del PCd'I a Colonia, Barontini non agisce in quanto desideroso di lasciare casa e affetti, in cerca di “avventure”: egli obbedisce, come fanno altre centinaia di militanti comunisti e antifascisti, alle indicazioni del Partito. Già incarcerato anni prima, il suo nome è tra i maggiori ricercati dalla polizia fascista e il Partito dà indicazione di espatrio per sottrarsi a un nuovo arresto. Barontini, insieme a Armando Gigli e Decio Tamberi fugge in barca da Livorno alla volta di Bastia: il Partito, racconterà lui stesso, «ci consigliò di espatriare, e così facemmo, nostro malgrado». Nessun “avventurismo”, dunque, ma scelta che risponde alla necessità di uscire dall'Italia per avere mano libera nella lotta contro il fascismo, come richiede il Partito.

Una disciplina politica e umana che Barontini stesso testimonia in una lettera alla moglie, la quale gli ventilava la possibilità di un'amnistia, che forse lo avrebbe messo al sicuro dall'arresto: «Oggi che il gioco è scoperto» afferma egli nella risposta, riportata nel volume di Era Barontini e Vittorio Marchi “Dario – Ilio Barontini”, «mi sento orgoglioso di poter dire che io sono un soldato disciplinato al grande partito rivoluzionario della classe operaia e che, quindi, non mi devo aspettare dal nemico nessuna concessione... Della amnistia, ne usufruiranno i vari Modigliani socialfascisti per la pelle... ai quali il fascismo ha messo un ponte per poter ritornare in Italia a distogliere le masse proletarie dal seguire il partito comunista, che dovrà ineluttabilmente condurle sulle orme della rivoluzione del proletariato russo». E continua, con una nota di carattere più “familiare”: «Aver abbandonato la famiglia, per i cosiddetti benpensanti è biasimevole, ma se nella vita le ragioni affettive dovessero essere motivo di freno a tutti gli altri doveri quale il personale nuovo (così nel testo) di eccepire il divenire sociale, dovere di classe... allora alla vita avverrebbe la stasi; ciò sarebbe molto stupido».

Anche per la partecipazione alla difesa della repubblica spagnola nelle Brigate Internazionali, (a fine 1935 Barontini parte da Mosca, dove era giunto nell'autunno 1932, per far ritorno a Parigi), dove arriva nella seconda metà del '36, è ancora Vittorio Marchi a scrivere che Ilio «giunge in Spagna perché ce lo hanno mandato, non va, come fanno altri, per continuare la tradizione dell'arditismo rosso. Arriva con l'ordine di mettersi a disposizione dell'esercito repubblicano», insieme a «numerosi comunisti addestrati in scuole di Mosca e Leningrado».

In Spagna, Barontini si distingue al comando del battaglione “Garibaldi”, poi divenuto Brigata, in particolare nelle battaglie del Jarama, Guadalajara, al Palacio de Ibarra,Trijueque, Brihuega.

Lasciata la Spagna nell'autunno del 1937, Barontini rientra dapprima ancora una volta in Francia, per lavorare all'Unione Popolare Italiana. La polizia fascista segnala: «Attualmente Barontini dirige l'ufficio reclutamento volontario per la Spagna rossa sito a Parigi».

L'altro momento da evidenziare nella vita e nell'attività di Ilio Barontini, riguarda il periodo di permanenza a Mosca: la partenza di Barontini per l'Unione Sovietica è segnalata in varie note delle polizie francese e italiana, tra settembre e dicembre 1932. Ma, in questo caso, ciò che più preme rilevare, non riguarda direttamente la persona o l'attività di Ilio Barontini, quanto il fatto di come, nel suo caso come in tanti altri casi in cui si parla dei comunisti italiani emigrati in Unione Sovietica per sfuggire al fascismo, le diverse “biografie” si affannino a “dimostrare” la “perfidia della polizia di Stalin” nei confronti dei comunisti stranieri, che fossero tedeschi, spagnoli, italiani, francesi. Non fa eccezione il caso di Barontini, che, a detta di tali cronache, uscirebbe indenne dalle “feroci purghe staliniste” solo grazie alla protezione di Robotti, Roasio o Togliatti.

Nello stesso volume già citato, scritto a quattro mani con la figlia minore di Barontini, Era, Vittorio Marchi, pur preciso, obiettivo, attento nel raccontare altre pagine della biografia di Ilio, quando arriva al “capitolo sovietico” si perde in un guazzabuglio di inesattezze, confusione di date, oltre che di nomi (assassinio di Kirov anticipato al “1 gennaio 1934”, invece che il 1 dicembre; nel 1936 suicidio di “Tonescky”, invece che Tomskij; carcere di “Taganka”, invece che Lubjanka; ecc.), in un miscuglio indeterminato di circostanze, come l'attribuzione a Radek e Bukharin delle novità inserite nella Costituzione staliniana del 1936. Ma il punto fermo, che accomuna più di un volume sulla biografia di Barontini, è l'inevitabile rimando agli scontri ai vertici del partito e dello stato sovietici (coi riflessi anche sul partito italiano, che riguarderebbero dunque lo stesso Barontini, prima ancora del suo arrivo a Mosca), con l'altrettanto inevitabile “attacco di Stalin” a qualsiasi tendenza – che sia trotskista, zinov'eviana o bukhariniana – che, affermano tali biografie, tendesse a salvaguardare le impostazioni leniniste contro “l'arroganza” stalinista. E, ancora inevitabilmente, si afferma direttamente, o lo si lascia intendere tra le righe, che Barontini starebbe coi primi, per cui anch'egli, come “tantissimi comunisti stranieri”, rischierebbe la galera o il lager, per cui gli esponenti più in vista dell'emigrazione italiana a Mosca si danno da fare per metterlo al sicuro dalle “inevitabili purghe” (con Togliatti che, scrive Fabio Baldassarri in “Ilio Barontini – Fuoriuscito, internazionalista e partigiano”, «preferiva sottrarlo al clima velenoso di Mosca») e lo spediscono in missione all'estero: ora in Manciuria con una delegazione dell'IC (ma il “periodo cinese” della biografia di Barontini non trova conferme dirette) e poi in Spagna. Oppure, per distanziarne la biografia dalle scelte “apocalittiche staliniste”, lo si inserisce fra gli antesignani delle svolte dell'IC, adottate però solo qualche anno più tardi: sempre, ovviamente, per “purgarlo” da qualsivoglia sospetto di “simpatie staliniste”.

La biografia ufficiale del Comune di Livorno, ad esempio, recita che anche durante la permanenza in Spagna, «Nei primi giorni del maggio 1937, durante la repressione della sedizione anarchica a Barcellona, Ilio si pronuncia esplicitamente contro l'impiego degli "internazionali" ed è molto turbato dalle notizie che giungono sui "processi di Mosca"». Insomma: sempre e ovunque un “democratico antistalinista”.

Eppure, nel volume di Mario Tredici “Gli altri e Ilio Barontini. Comunisti livornesi in Unione Sovietica” (ed. ETS, 2017) in cui si traccia il profilo di nove comunisti, con uno sguardo particolare al loro periodo sovietico, si parla di Barontini come di uno «stalinista a tutto tondo»; si dice che «l'esperienza sovietica... plasmò la personalità politica di Barontini in senso stalinista. Esito che lui stesso ebbe a segnalare nell'autobiografia: “non sono mai stato in dissenso con il partito”; “mi sono sforzato di assorbire quanto più ha potuto di ideologia marxista leninista stalinista”». Ma, anche in questo volume, che oltretutto attinge largamente, tra gli altri, da autori che si possono molto “benevolmente” definire, al minimo, antisovietici e anticomunisti (Lehner e Bigazzi; Caccavale, Dundovich), non possono naturalmente mancare gli abituali ritornelli a «I grandi processi del 1936-1937 ai vecchi bolscevichi», fino alla recita di rituali giaculatorie, nel contrapporre le biografie di Urbano Lorenzini e Astarotte Cantini: il primo «provetto stalinista», che si spinse fino «azioni anche infamanti» (e come poteva essere altrimenti, per uno stalinista!); l'altro, «perseguitato da Mussolini» e «unico comunista livornese soppresso nelle purghe staliniane, certamente innocente». Dopo il 1956, soprattutto in URSS, si contarono a migliaia i riabilitati perché “certamente innocenti”: fino a che non sono apparse, già in epoca post-sovietica, le ricerche di Viktor Zemskov, Andrej Timofeev, Jurij Žukov, Igor' Pykhalov, Konstantin Kolontaev, solo per citarne alcuni, a rimettere ordine.

Il colmo lo si raggiunge in qualche biografia più recente, in cui si rasentano visioni “astrali”, arzigogolando su quale strada avrebbe scelto Barontini se quel disgraziato incidente del 22 gennaio 1951 non gli avesse troncato la vita: il tutto per inserire anche il suo nome nelle prese di distanza del PCI togliattiano e berlingueriano dai “troppo stretti legami” con l'Unione Sovietica, nelle scelte “democratiche” di condanna delle “invasioni sovietiche”. «Certo mi piacerebbe» scrive ad esempio l'ex presidente della provincia di Livorno, Fabio Baldassarri, nel volumetto già ricordato «e immagino che piacerebbe anche a voi, sapere cosa avrebbe pensato nel 1956 quando l'Ungheria fu invasa dai carri armati sovietici, o nel 1961 quando a Berlino fu alzato il muro che divideva in due la Germania. Posso solo prendere atto che nella disgrazia almeno questo gli fu risparmiato». Come dire: così come il PCI, a tempo debito, avrebbe incensato quegli “insorti” che avevano scarcerato oltre 9.000 esponenti dell'ex regime hortysta, anche Barontini sarebbe certamente stato dalla parte di quegli ex fascisti, addestrati in Germania, che a Budapest avevano massacrato centinaia di comunisti ed esponenti del governo. S'intende: in nome della “libertà”. Difficile dire dove finisca la spinta revisionista di tali parole e dove inizi il vero e proprio social-liberalismo, che arriva ad azzardare un paragone tra il presunto “attentato” automobilistico (peraltro senza conseguenze) di cui sarebbe rimasto vittima Enrico Berlinguer in Romania nel 1981 (organizzato dalle perfide spie sovietiche: si suggerisce al lettore) e il tragico incidente a Scandicci di trent'anni prima, con la misteriosa scomparsa di un manoscritto di memorie in cui potevano celarsi «informazioni rilevanti – per qualcuno persino scomode – circa la guerra civile in Spagna, l'Etiopia, la Russia, la Manciuria, la Francia e l'Italia».

Nato a Cecina nel 1890, di famiglia contadina dalle tradizioni socialiste, Ilio Barontini, militante socialista dal 1905, operaio metallurgico al cantiere “Orlando”, quindi ferroviere, organizzatore sindacale della propria categoria, paga con la perdita del posto di lavoro l'elezione a segretario provinciale della stessa. Riformato dal servizio militare, fu spedito per tre anni a lavorare alla Breda di Milano.

Nel PSI aderisce alla corrente de L'Ordine nuovo e al congresso di Livorno entra a far parte del PCd'I. Lo stesso anno è candidato alle elezioni politiche per la circoscrizione di Livorno. A proposito degli Arditi del Popolo, che fanno la comparsa nella primavera del '21 anche a Livorno, Barontini, nonostante la direttiva del Comitato esecutivo del PCd'I bordighiano di non farvi parte, dichiara che «gli arditi sono completamente sovversivi e da escludere dannunziani», un'affermazione che trova conforto nelle parole di Antonio Gramsci, su L'Ordine Nuovo del 15 luglio: «Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del popolo? Tutt'altro: essi aspirano all'armamento del proletariato, alla creazione di una forza armata proletaria che sia in grado di sconfiggere la borghesia».

Nel 1923, Ilio è nel direttivo della Camera del lavoro e in quell'anno viene arrestato, mentre nel 1928, coinvolto nel cosiddetto "processo dei due corrieri", viene assolto per mancanza di prove. Nel 1929, con il plebiscito fascista, il suo nome comincia a comparire troppo spesso nelle relazioni della questura; il partito lo invita a emigrare e nella notte tra il 30 aprile e il 1 maggio 1931, insieme ad altri compagni parte da Livorno su una barca da pesca e arriva a Bastia. Da lì, su un postale, a Marsiglia e quindi a Parigi, dove, insieme ad Arturo Colombi, organizza i collegamenti tra l'emigrazione antifascista e il movimento clandestino in Italia.

Negli ultimi mesi del 1932 il partito lo invia a Mosca, dove lavora in fabbrica come tecnico specializzato e frequenta la Scuola leninista dell'Internazionale Comunista. Nei tre-quattro anni di permanenza in URSS, Barontini continua la propaganda antifascista nei porti del Baltico e del mar Nero, avvicinando i marinai italiani in transito; inquadrato nell'Internazionale sindacale (ProfIntern), opera nel Soccorso Rosso e pare che a Mosca abbia anche frequentato l’Accademia Militare “Frunze”, da cui sarebbe uscito col grado di maggiore.

A questo “dettaglio” viene di solito aggiunto l'altro, di una sua esperienza in Manciuria, durante il periodo trascorso in URSS, che però rimane oltremodo dubbia. Ne fa un labile cenno Anton Ukmar, il comunista sloveno che sarà con Barontini prima in Spagna e poi in Etiopia, ma c'è discordanza di date e non ci sono altre testimonianze certe. Secondo un'altra versione, Barontini (ma la cosa non è dimostrata) avrebbe fatto parte dei reduci delle Brigate Internazionali (combattenti, medici, specialisti in trasmissioni) che nel 1939, dopo la Spagna, furono inviati in Cina, a fianco delle forze di Chu Teh e Mao Tse Tung.

Allo scoppio della guerra civile di Spagna, è inviato dal partito a far parte delle Brigate Internazionali. In Spagna, come ufficiale di Stato Maggiore della 20° brigata internazionale, partecipa alla difesa di Madrid, e il 5 febbraio 1937 sostituisce Antonio Roasio come commissario politico del battaglione Garibaldi, allora comandato da Randolfo Pacciardi. In assenza di quest'ultimo - che, in congedo per una ferita, si era recato a Parigi in missione politica - fu Barontini ad assumere il comando del battaglione durante quasi tutta la battaglia di Guadalajara, nel marzo 1937, vittoriosa per l'esercito repubblicano. Fu nominato commissario politico di brigata e più tardi, sul campo di battaglia di Huesca, commissario politico di divisione.

Rientrato in Francia alla fine del 1938, viene inviato in Etiopia, insieme al triestino Antonio Uckmar "Johannes" e lo spezzino Bruno Rolla "Petrus" (i “tre apostoli”) nomi scelti per avvicinare meglio il religiosissimo popolo etiope. Ancora una volta, Barontini “Paulus” e gli altri compagni seguono le direttive del Partito; la missione era infatti stata preceduta da contatti tra Di Vittorio, Ruggero Grieco, Giuseppe Berti, la segreteria del Negus e le autorità francesi. «… per decisione del nostro partito» racconta Barontini, «in accordo con il governo repubblicano spagnolo, mi fu proposto di recarmi in Abissinia per condurvi e meglio organizzare il movimento partigiano, ciò come diversivo militare contro il fascismo e come politica nazionale rispetto ai popoli coloniali. Accettai e partii alla fine del 38; organizzai in Abissinia un vasto movimento partigiano, organizzai un governo provvisorio di patrioti, diffusi in due lingue un giornale ebdomadario – La voce degli Abissini. Feci ritorno dall’Abissinia ai primi del 1940».

In Africa, Barontini addestra e organizza battaglioni e formazioni mobili di oltre mille uomini. Fa propaganda fra la popolazione e mobilita in poco tempo un esercito di 250.000 combattenti e un governo provvisorio di 9 ministri. Coi Ras delle varie tribù in lotta per la successione al trono del Negus, quest'ultimo, dall'esilio britannico, nomina Barontini vice-imperatore di Abissinia e gli affida il compito di dirimere le lotte interne alla resistenza.

Sul periodo africano di Ilio Barontini, Paolo Rumiz ne tratteggia a modo suo la figura, su La Repubblica del 30 aprile 2006, con un reportage dall'Etiopia. Scrive Rumiz: «Gli ultimi testimoni vivi non ci sbattono in faccia le stragi fasciste. Non ci parlano dei gas, dei 700mila morti, dei pogrom, ma di misteriosi italiani nella resistenza etiope. Dell’ombra di Paolo, o "Paulus", al secolo Ilio Barontini, da Cecina (Livorno), comunista italiano creduto francese - “Paul Langlois” - dalla polizia fascista... "Paulus" l’imprendibile, che insegna agli africani la guerra psicologica e l’uso delle mine, ciclostila giornali, obbliga le formazioni rivali a combattere unite, trasmette gli ordini del Negus».

Il Tirreno del 10 settembre 2005 riporta la testimonianza anche della medaglia d'oro Giovanni Pesce, che ricorda così Ilio Barontini, considerandosene allievo, avendolo incontrato per la prima volta in Spagna, nel novembre 1936, quando Pesce aveva 18 anni e Barontini più del doppio.

Lui raccontava, dice Pesce, di aver lasciato l’Italia nel ’31 per evitare un altro mandato di cattura. Andò in Russia nel ’33, credo. E a Mosca fu segretario dell’emigrazione italiana. Studiava molto. In pratica divenne ingegnere. Tanto che dirigeva un reparto in un’officina. E prima della Spagna era stato in Cina per una missione. In Spagna era giunto prima di me, nel luglio mi pare. Lo fecero commissario politico del battaglione Garibaldi. Poi venne Guadalajara. E al comando del battaglione fu Barontini a sostituire Pacciardi, rivelandosi uno stratega e un galvanizzatore eccezionale. Gli italiani di parte fascista, arruolati a forza e presentati come volontari, non credevano a quella guerra. Non avevano un ideale per cui combattere. Molti, partendo dall’Italia, avevano creduto di andare in Etiopia. Barontini capì tutto e ordinò di rispettare i prigionieri.

Quindi, dal ’40 al ’43, Barontini è un capo della resistenza francese – dice ancora Pesce. Ne dà di filo da torcere ai nazisti... E’ lui che fa saltare l’hotel Terminus a Marsiglia durante un banchetto degli ufficiali nazisti che lo occupavano. E sarà lui, con la medesima tecnica, a far saltare l’hotel Baglioni a Bologna, sede della Kommandantur. Nel novembre ’43 io ero a Torino, racconta Pesce, preoccupato di non avere mezzi per agire, quando mi annunciano l’arrivo di un ispettore. “È uno che ti conosce bene”. Vado all’appuntamento ed eccoti Barontini. Gli dico dei miei guai. E lui mi fa: “per essere un buon gappista ci vuole spirito d’iniziativa. L’importante è avere degli obiettivi da colpire”. “Tu nei hai?”. “Ne ho cinquanta. Ma non bombe, armi sufficienti”. “Le armi si prendono ai tedeschi. Le bombe ti mostro come si fanno”. Andiamo nel mio covo, prende un tubo di ferro, lo riempie di tritolo, lo chiude, colloca la miccia, calcola la sua lunghezza e dice: “Questa è regolata a tre minuti”. “Ma sei pazzo? Con questa saltiamo tutti”. Prova dice. Io vado nel comando tedesco di fronte alla stazione di Porta Nuova, colloco la bomba e mi allontano in bicicletta. Dopo tre minuti esatti scoppia. “Hai visto come si fanno le cose?”, mi dice».

Dopo l'Etiopia, Ilio torna in Francia all'inizio del '40 e, con l'occupazione tedesca, viene internato in campo di concentramento, dal quale è liberato nel '41 per intervento del governo sovietico, che lo rivendica come proprio cittadino. Dopo essersi occupato per qualche tempo del "Soccorso Rosso", organizza, nel territorio non occupato dai tedeschi, gli antifascisti italiani e stranieri nei gruppi dei F.T.P.F. (Franc Tireurs et Partisans Francais) che confluirono in seguito nella resistenza francese.

Nel Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani, la biografia curata da Luciana Trentin ricorda che, caduto il regime fascista, Barontini rientra in Italia e dopo l'8 settembre si dedica all'organizzazione delle prime formazioni partigiane, che allora si andavano costituendo nell'Italia settentrionale, in Toscana e in Emilia-Romagna. Dal 1944 in poi la zona stabile della sua attività è l'Emilia-Romagna: con il nome di battaglia di "Dario" assume il comando delle brigate d'assalto Garibaldi e diviene membro del triumvirato insurrezionale del Partito Comunista in Emilia. Quando, nell'estate del 1944, in vista di una rapida avanzata alleata, si costituisce il Comando Militare Unico Emilia Romagna (C.M.U.E.R.), la cui giurisdizione si allargava da Ravenna a Parma, è preposto alla sua direzione. Fra gli scontri cui partecipò, la battaglia di Porta Lame a Bologna (7 novembre 1944). Il 19 aprile 1945, alla testa dei suoi uomini, Barontini liberava Bologna e la consegnava alle sopraggiunte truppe alleate.

Dopo la Liberazione, Ilio Barontini, membro del CC del PCI, del Comitato nazionale dei ferrovieri, segretario della federazione comunista di Livorno, fu Deputato alla Costituente e poi Senatore, segretario della Commissione difesa. Decorato con la Bronze Star inglese, gli viene conferita la cittadinanza onoraria della città di Bologna. L’Unione Sovietica gli attribuisce l'Ordine della Stella Rossa.


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