Jerusalem Post - Israele al suo bivio "cruciale"

02 Maggio 2024 09:00 Piccole Note


Piccole Note

Ieri avevamo dato conto dell’articolo di Alon Pinkas sul momentum fatale di Israele, che sta decidendo se attaccare Rafah o meno. Oggi è il Jerusalem Post a sottolineare l’importanza di queste ore e di quella decisione, definendo il momento un “bivio cruciale”. Il monito arriva in forma di editoriale, cosa che lo rende ancora più autorevole.



Jerusalem Post: porre fine al logoramento di Israele

“Il primo ministro Benjamin Netanyahu – si legge sul Jp – si trova di fronte a una decisione che non solo definirà la sua eredità, ma modellerà anche in modo significativo il futuro della nostra nazione. La posta in gioco è enorme e la richiesta di una leadership visionaria non è mai stata così urgente”.

Se vero che l’attacco a Rafah potrebbe portare alla fine della minaccia di Hamas, continua il Jp, esso “comporta un costo potenziale elevato: una significativa perdita di vite umane e una continua instabilità nella regione”.

“Al contrario, l’argomentazione a favore del negoziato sottolinea la necessità immediata di porre fine alle sofferenze dei nostri cittadini. Questo approccio pragmatico mira a una soluzione che potrebbe potenzialmente salvare vite umane prevenendo un’ulteriore escalation militare e consentirebbe il rapido ritorno dei nostri ostaggi. Tali negoziati potrebbero anche aprire la strada a un futuro più stabile, ponendo le basi per processi di pace a lungo termine”.

E ancora, “tuttavia, questa non è semplicemente una decisione strategica; porta con sé profonde implicazioni morali […] possiamo giustificare un impegno militare prolungato che comporta con ogni probabilità perdite sostanziali da entrambe le parti? Oppure il nostro imperativo morale è quello di dare priorità alla salvezza immediata dei nostri ostaggi, potenzialmente a scapito di preoccupazioni più ampie di sicurezza e giustizia?”

Quindi, il passaggio forse più significativo dello scritto: “Mentre la situazione di stallo continua, il costo in termini umani diventa sempre più elevato e l’impatto sulla nostra psiche nazionale sempre più profondo. L’opinione pubblica israeliana chiede con sempre più insistenza la fine di questa storia, che ha prosciugato le nostre risorse, distolto la nostra attenzione dallo sviluppo nazionale e logorato il delicato tessuto della nostra unità sociale”.

“[…] L’inazione o l’indecisione non sono più accettabili. L’opinione pubblica israeliana merita di vivere senza la costante minaccia di un conflitto e senza l’agonia di sapere che i suoi concittadini soffrono in prigionia. È tempo di muoversi con decisione, di porre fine alle attuali ostilità e di iniziare l’arduo ma necessario processo di guarigione e ricostruzione”.

L’editoriale non accenna ai costi in termini di reputazione internazionale che comporterebbe l’attacco a Rafah, come faceva invece Thomas Friedman sul Nyt o Alon Pinkas su Haaretz (Piccolenote), i quali giustamente sottolineavano che l’attacco avrebbe reso Israele un paria internazionale.

Non che attualmente Israele sia scevro da tale vulnus. Ne scriveva il 18 aprile Amos Goldstein, docente di tematiche legate all’Olocausto e al genocidio presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, in un articolo che iniziava così: “Sì, è un genocidio. È così difficile e doloroso ammetterlo, ma nonostante tutto, e nonostante tutti i nostri sforzi per pensare diversamente, dopo sei mesi di guerra brutale non possiamo più evitare questa conclusione. La storia ebraica sarà ormai macchiata dal marchio di Caino per il ‘più orribile dei crimini’, che non potrà essere cancellato dalla sua fronte. In questo modo sarà visto nel giudizio della storia per le generazioni a venire”.

Netanyahu sta tentando di affossare le trattative con Hamas

Tel Aviv ha ancora tempo quantomeno per limitare i danni. Un attacco a Rafah lo marchierebbe a fuoco col marchio di infamia, anche se fosse attuato secondo quanto prospettato dal JP, cioè con un attacco “rapido e deciso”, con pronta consegna della gestione postbellica a una supervisione internazionale.

Il punto non sono solo i danni, i morti e i feriti che causerà l’attacco, ma anche la deportazione di oltre un milione di persone, che sarebbero sfollate verso aree di Gaza in cui l’esercito israeliano ha distrutto tutto, tagliando così l’ultimo cordone ombelicale che attualmente li lega agli aiuti umanitari, che a Rafah ancora sussistono benché tragicamente insufficienti.

Peraltro, da quanto trapela dei piani israeliani, agli uomini in età militare non sarà permesso di sfuggire al destino di Rafah: l’esercito israeliano starebbe predisponendo posti di blocco a tale scopo. Si tratta ancora di un’indiscrezione, ma se fosse vera, sarebbe un ulteriore deriva verso la follia della leadership israeliana.

Al di là del particolare, che aggiungerebbe orrore all’orrore consueto, il fatto che il momento sia cruciale lo evidenzia anche l’annullamento della riunione del gabinetto di guerra, deciso a “causa dei disaccordi sul possibile accordo sugli ostaggi e sull’ipotesi dell’attacco a Rafah”, come si legge sul Timesofisrael.

Negli ultimi giorni, infatti, Benny Gantz, che fa parte del gabinetto, ha alzato la voce come mai prima, arrivando a minacciare di abbandonare il governo, nel tentativo di forzare un accordo sugli ostaggi.

Sulla loro liberazione si sta ancora trattando con Hamas. Ma, se è doverosa la speranza, occorre essere pronti alla delusione. Anche perché Netanyahu sta mettendo in gioco tutto il suo potere per mandare a monte i negoziati. Lo dimostra la sua dichiarazione sulla inevitabilità di un attacco a Rafah, “con o senza un accordo sugli ostaggi“.

È chiaro che una delle carte in mano a Israele per ottenere l’accordo è la rinuncia della campagna su Rafah (almeno questo…) perché, per liberare gli ostaggi, Hamas deve ottenere qualcosa. Togliere questa carta dal tavolo è un palese tentativo di affossare la trattativa. Vedremo.

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