La crisi del modello di democrazia “rappresentativa”: il caso di Panama

09 Maggio 2024 09:00 Geraldina Colotti


di Geraldina Colotti

Il 5 maggio, a Panama, paese che occupa l’ultima porzione dell’America Centrale e in cui vivono quasi 4,5 milioni di persone, si sono svolte le elezioni generali per il periodo 2024- 2029, in cui hanno votato oltre 3 milioni di aventi diritto. Vincitore delle presidenziali, a turno unico, è stato l’avvocato José Raúl Mulino, candidato di centrodestra per l’alleanza Salvar Panamá, che ha ottenuto oltre 738.000 preferenze (34,41%). Il secondo classificato, Ricardo Lombana, del Movimiento Otro Camino (Moca), un partito giustizialista, “anticorruzione”, ne ha totalizzate più di 536.000 (il 24,96%).

Difficile cercare un candidato del vero cambiamento fra i primi classificati, a meno di non voler considerare tale l’ex presidente socialdemocratico Martín Torrijos (2004-2009), che fa parte dell’Internazionale socialista, e che ha totalizzato il 16% dei voti correndo per il Partido Popular. Torrijos è figlio del defunto generale Omar Torrijos, vissuto in un contesto nel quale l’esistenza del campo socialista determinava politiche e appartenenze, spingendo verso la ricerca di sovranità coniugata alle riforme sociali.

E in quel quadro si inserirono le posizioni di Omar Torrijos, ammiratore del leader jugoslavo Tito e del nazionalismo di Nasser, a cui si ispirava per ottenere con il Canale di Panama un risultato analogo a quello ottenuto da Nasser con il Canale di Suez. In politica estera, il generale ha sostenuto il presidente socialista cileno, Salvador Allende, accogliendo i rifugiati dopo il golpe di Pinochet, ha appoggiato la guerriglia sandinista in Nicaragua e quella in Salvador e Guatemala, rinnovando le relazioni con Cuba.

A questa elezione, il partito da lui fondato, il Prd, ha mostrato le proprie divisioni interne, a cominciare dal fatto che Martín Torrijos, muovendo critiche di carattere etico e morale, se ne è staccato e ha corso per il Partito popolare. E anche un’altra appartenente al Prd, la deputata Zulay Leyset, ha rappresentato un’altra corrente, presentandosi come “indipendente” e totalizzando il 6,1% dei voti.

I risultati elettorali del 5 indicano, anche a Panama, la crisi in cui versa il modello di democrazia “rappresentativa”. Una crisi di legittimità del sistema tradizionale dei partiti che, come in molti altri paesi, è un capitolo della crisi strutturale del modello capitalista, in cui le istanze di trasformazione popolare al massimo arrivano a imporre una sentenza favorevole, com’è accaduto a fine 2023. Allora, i 40 giorni di proteste, costati oltre un migliaio di arresti e 4 morti, hanno portato a una sentenza di incostituzionalità riguardo al contratto ventennale stipulato dal governo di Laurentino Cortizo con l’impresa Minera Panamá, filiale della canadese First Quantum Minerals, per lo sfruttamento di una grande cava di rame a cielo aperto.

Anche per questo, il candidato governativo, l’ex vicepresidente Gabriel Carrizo, ha ottenuto meno del 6% delle preferenze, finendo anche dietro a Zulay Leyset e a Rómulo Roux, di Cambio Democrático (Cd), che è stato ministro degli Esteri dell’ex presidente Ricardo Martinelli e ha ottenuto il 12%.

Nella rosa degli 8 candidati, sei uomini e due donne, sei avvocati e due economiste, una delle due economiste Maribel Gordón, era l’unica candidata dei movimenti popolari, e con posizioni dichiaratamente schierate a favore del socialismo bolivariano e dell’integrazione latinoamericana, ma è finita in fondo alla classifica, con meno dell’1%. Il voto ha invece premiato il delfino di Martinelli, inabilitato per via di una condanna a oltre 10 anni di carcere per riciclaggio di denaro sporco, e attualmente rifugiato nell’ambasciata del Nicaragua. E proprio lì è corso ad abbracciarlo il neo presidente, assicurando che, con la sua elezione “è finita l’epoca della persecuzione politica”.

Mulino si è esplicitamente riferito alle politiche anti-immigrati di Donald Trump e al muro di separazione. Nel paese gli immigrati sono oltre mezzo milione. Il neo presidente ha promesso di chiudere il passaggio nella Selva del Darién, lungo 266 km, e altamente rischioso, che collega la Colombia con Panamá, usato come rotta migratoria dall’America del Sud a quella del Nord. Ha anche sostenuto che intende indire un’Assemblea Costituente per cambiare la Carta Magna. Questo gli permetterebbe di destituire il Congresso e la Corte Suprema.

Ha anche promesso di riportare il Panama ai livelli di crescita che, ai tempi di Martinelli, secondo il Fondo Monetario Internazionale figurava come il terzo paese più competitivo dell’America latina e quello con il maggior livello di crescita economica in relazione al Prodotto interno bruto, pur restando una delle nazioni più diseguali della regione. Il modello economico neoliberista, imposto durante il decennio degli anni 1990 e seguito all’invasione Usa del 1989, ha inserito pienamente il paese nel sistema globalizzato e dollarizzato. Un modello ben rappresentato dall’imprenditore Martinelli, che ha governato dal 2009 al 2014 e che, con le sue politiche neoliberiste tese a fare del paese un centro finanziario e un paradiso fiscale, ha provocato un lungo sciopero generale dei lavoratori edili impoveriti.

Il governo Martinelli ha anche approvato un trattato di libero commercio con altri paesi della regione e con l’Unione europea, ed è finito in un’inchiesta della magistratura italiana per uno scandalo di contratti truccati per 25 milioni di dollari. Nel 2014, si è anche distinto per gli attacchi alla rivoluzione bolivariana all’interno dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), che hanno portato il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, a rompere le relazioni con Panama.

Il quadro offerto dai risultati elettorali a livello parlamentare – l’elezione di 21 candidati “indipendenti” contro 16 tradizionali - è a sua volta un sintomo della crisi istituzionale in un paese retto da un patto fra élite economiche e politiche per spartirsi il potere e i proventi che si generano intorno al Canale di Panama. Un punto strategico del commercio mondiale, aperto nel 1914, volano dell’economia panamense.

Un’opera faraonica che consente di accorciare di 12.700 chilometri la circumnavigazione del Sud America, collegando il Pacifico e l’Atlantico, dove passa il 5% del commercio globale, e che ha subito i contraccolpi della siccità, dovuta al cambiamento climatico e al fenomeno di El Niño, aumentato gli effetti della crisi economica che colpisce i settori popolari.

Dal 2017, da quando Panama ha chiuso i rapporti con Taiwan e ha aderito alla politica di “una sola Cina” chiesta da Pechino, il canale è però anche al centro del mutamento di relazioni geopolitiche interessate dalla Belt and Road Initiative cinese. Nel 2018, Panama è stato il primo paese latinoamericano a far parte della Via della Seta. Da allora, gli investimenti cinesi nel paese si sono moltiplicati.

Nel 2002, anche Cina e Nicaragua hanno firmato un memorandum d’intesa per la cooperazione sulla Nuova via della Seta, alla vigilia della cerimonia di insediamento del presidente Daniel Ortega per un quinto mandato, che gli Usa non sono riusciti a impedire, nonostante i tentativi di destabilizzazione del 2018.

Per gli Usa, mantenere il controllo di Panama significa evitare che, a duecento anni dalla Dottrina Monroe, si conficchi ulteriormente un’altra spina nel fianco in una zona di alleanza strategica, eccezion fatta per Nicaragua e Cuba.

E mentre gli oppositori venezuelani hanno inviato inviti e felicitazioni al neo-presidente, Mulino si è affrettato a esprimere “preoccupazione per la democrazia”, augurandosi “elezioni giuste” per il 28 luglio.

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