'Pivot to Asia'-China: qualcosa non funziona?



di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it


Qualcosa sembra scricchiolare nella complessa impalcatura del “Pivot to Asia” statunitense, tanto nella “gamba” economica che in quella militare e della sicurezza. Certo, le difficoltà che si stanno rivelando in questi giorni possono essere collegate anche all'ormai prossimo cambio della guardia alla Casa bianca, tuttavia vanno segnalate per comprendere meglio lo stato dei rapporti in una regione ormai cruciale per gli sviluppi dell'intero pianeta e – ancor di più – per evitare una descrizione manichea della situazione secondo la quale la Cina si troverebbe opposta ad un compatto fronte guidato da Washington.


Fronte Trans Pacific Partnership. Stiamo parlando del trattato di libero scambio Asia-Pacifico siglato a fine 2015 e che esclude Pechino e fortemente voluto dall'amministrazione Obama per dare un contenuto economico al Pivot to Asia. Ma non solo. Da più parti, infatti, è stato subito chiarito che si tratta di un accordo dalla portata ben più ampia - importante quanto una nuova portaerei -, finalizzata al mantenimento dell'egemonia a stelle e strisce in Asia di fronte all'emergere della potenza politico/economico e militare cinese. Lo ha ribadito in tempi recenti anche il New York Times: "that many of our friends in Asia were feeling neglected by America, and that it was being pushed aside in the region by China". In sostanza: gli Usa dovevano dare un segnale di presenza ai propri alleati, ribadire il proprio impegno.


Ma ora i nodi sembrano venire al pettine, tanto da metterne in dubbio l'effettiva esecuzione. In questi giorni il parlamento del Vietnam socialista ha deciso di rinviare la ratifica del trattato per meglio "analizzare la situazione globale, valutare le azioni degli altri Paesi e attendere il risultato delle elezioni statunitensi". E pensare che proprio Hanoi avrebbe dovuto aprire la serie delle ratifiche…


E le Filippine? All'indomani della decisione arbitrale sul Mar cinese meridionale, pareva che la Cina fosse stata messa diplomaticamente all'angolo grazie all'iniziativa di uno storico alleato degli Stati Uniti quale sono le Filippine. Al contrario, proprio quando la tensione sembrava essere al culmine, tra Pechino e Manila si è riaperto il dialogo in vista di un possibile accomodamento diplomatico delle controversie di sovranità. La presidenza Duterte, in questo senso, sembra aver segnato una discontinuità rispetto al suo predecessore giunto persino a paragonare le “pretese” cinesi a quelle di Hitler nei confronti del Sudeti. Se da una parte non viene messa in discussione l'alleanza con gli Stati Uniti – sono già in programma esercitazioni militari congiunte e lo US-Philippines Enhanced Defense Cooperation Agreement (EDCA) ha aperto cinque basi filippine agli Stati Uniti – tuttavia, Duterte ha lanciato messaggi [1] che sembrano dirigere il Paese verso una diplomazia dell'equidistanza e del dialogo: a suo dire sembra essere giunto il momento delle “alleanze aperte” e di migliori rapporti sia con la Russia che con la Cina, anche per quanto riguarda l'acquisto di forniture militari. Non solo: questa nuova linea diplomatica potrebbe portare ad un ripensamento anche sul fronte dei pattugliamenti congiunti Washington-Manila nella surriscaldate acque del Mar cinese meridionale.


Ripetiamo, per ora si tratta solo di “possibili” sviluppi, tuttavia ci raccontano che la strategia statunitense in Asia orientale incontra crescenti difficoltà di fronte alla capacità di Pechino di far valere il proprio peso economico e la forza attrattiva della sua capacità di investimento (si pensi al riferimento di Duterte alla collaborazione cinese per la costruzione di ferrovie).


NOTE

1. Per le dichiarazioni di Duterte e relativa analisi rinvio a La Mattina Federico, Nuove relazioni degli Stati Uniti con le Filippine, Imesi Palermo, 26 ottobre 2016.

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