di Vladimiro Giacché e Carlo Milani*
da ilfoglio.it
Con l’avvicinarsi delle elezioni politiche si riaccende il dibattito sul debito pubblico italiano e sulla opportunità o meno di sforare la soglia del 3 per cento del deficit annuo. Il debito pubblico italiano è oggetto di attenzione anche in Germania. Qui, in assenza di un governo (a quattro mesi dal voto di settembre), e con Wolfgang Schäuble “promosso” a presidente del Bundestag, il ruolo del falco è assunto da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank. Weidmann per un verso insiste sulla riduzione dei titoli di stato nei portafogli delle banche, quale precondizione per avviare il terzo pilastro dell’Unione bancaria, e dall’altro lato preme per una conclusione quanto più possibile ravvicinata del programma di Quantitative easing (Qe).
La Banca centrale europea oggi riunirà per la prima volta quest’anno il Consiglio direttivo e inizierà a dimezzare gli acquisti mensili di titoli di stato. All’obiettivo tedesco di un rapido ritiro del Qe (di fatto convergente col primo nell’effetto di aumentare la pressione dei mercati sui titoli di stato italiani) è funzionale anche la tesi secondo cui le azioni messe in atto dalla Bce di Mario Draghi, in primis con il Qe, avrebbero portato ingenti benefici in termini di risparmio da interessi sul debito pubblico per i paesi periferici; benefici che non dovrebbero permanere ancora per lungo tempo, in quanto costituirebbero un indebito vantaggio per i paesi periferici rispetto ai paesi “virtuosi” (cosiddetti “core”). Questa tesi ha trovato ospitalità anche in Italia. Ma sono stati davvero i paesi periferici a trarre maggior vantaggio dalle politiche espansive della Bce?
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