Tutte le fake news sul debito pubblico di Marattin



di Thomas Fazi




L’ultimo video di Luigi Marattin è dedicato a uno dei temi più caldi di questi anni: il debito. Nella fattispecie, Marratin si propone di spiegare «perché il debito in rapporto al PIL non può crescere all’infinito» e «perché non possiamo finanziare a debito tutto ciò che vogliamo». Peccato che il video di Marattin, tanto per cambiare, sia infarcito di fake news.


La prima risposta che fornisce Marattin è che «più debito in rapporto al PIL significa più interessi da pagare», cioè – fa intendere tra le righe – più tasse, ricordando come quest’anno l’Italia spenderà circa 65 miliardi di euro solo in interessi passivi. Vediamo perché si tratta di una colossale fake news.


Tanto per cominciare, per smentire l’affermazione per cui un maggiore rapporto debito/PIL equivale automaticamente a una maggiore spesa per interessi, basta fare un rapido confronto tra il Giappone – che ha un rapporto debito/PIL del 250 per cento, quasi il doppio di quello italiano – e l’Italia: mentre la nostra spesa per interessi si aggira intorno al 4 per cento del PIL, quella del Giappone è inferiore allo 0,5 per cento del PIL. Il dato è talmente eclatante – e così palesemente in contraddizione con l’affermazione di Marattin – che potremmo anche chiuderla qui. Ma vediamo di approfondire un po’ di più la faccenda.


Perché la spesa per interessi del Giappone è così bassa rispetto alla nostra? La ragione non ha nulla a che vedere col fatto che il Giappone è un paese più “affidabile” del nostro, come amano ripetere i marattiani, o che «i giapponesi non attraversano col rosso», come ebbe a dire Carlo Cottarelli in un celebre incontro in cui ha partecipato anche il sottoscritto, o che le famiglie giapponesi hanno un maggiore spirito patriottico del nostro (nonostante la vulgata, queste in realtà detengono solo il 13 per cento del debito nazionale), ma è unicamente una conseguenza del fatto che in un paese che emette la propria valuta e che emette debito nella suddetta valuta – un punto su cui torneremo –, è la banca centrale a determinare il tasso di interesse e dunque la spesa per interessi complessiva.



La banca centrale, dunque, se vuole, può tranquillamente decidere di portare a zero la spesa per interessi, come dimostra l’esempio del Giappone: sono ormai diversi anni, infatti, che la banca centrale giapponese ha deciso di tenere a zero i tassi di interesse sui nuovi titoli emessi. E può farlo perché, laddove i mercati si dovessero rifiutare di sottoscrivere i nuovi titoli emessi al tasso di interesse fissato dalla banca centrale, quest’ultima può sempre comprare i titoli essa stessa. È esattamente quello che sta facendo da anni la Banca del Giappone, che attualmente detiene circa il 50 per cento del debito pubblico del paese (e che faceva anche la Banca d’Italia prima del “divorzio” del 1981).


In quest’ottica, risulta evidente come il debito pubblico, in un regime di cooperazione tra banca centrale e Tesoro, non sia altro che un debito che un ramo dello Stato ha nei confronti di un altro ramo dello Stato: un debito, in altre parole, che lo Stato ha nei confronti di se stesso e dunque, a tutti gli effetti, fittizio. Come riconosceva un economista tutt’altro che radicale come Luigi Spaventa già nel 1984: «Lo stock di base monetaria creata tramite il canale del Tesoro può essere considerato un debito solo convenzionalmente. Ciò si vede bene qualora si consolidi il Tesoro con la banca centrale: in questo caso manca un vero e proprio debito corrispondente alla base monetaria creata dalla Banca d’Italia per conto del Tesoro, e in ciò consiste l’essenza del potere del signoraggio».


Uno Stato che dispone della sovranità monetaria, dunque, non potrà mai rimanere a corto di fondi – né potrà mai trovarsi impossibilitato a rifinanziare il proprio debito ed essere dunque costretto a fare default, come dice Marattin – nel caso in cui non vi siano investitori disposti a comprare i titoli emessi dallo Stato, poiché, come detto, la banca centrale può sempre intervenire per sopperire a una eventuale carenza di acquirenti privati o per rimborsare i titoli in scadenza (quello che in gergo tecnico si chiama rollover) attraverso la creazione di denaro dal nulla.


Come viene riconosciuto persino in un recente studio della BCE: «In uno Stato che dispone della propria moneta fiat, l’autorità monetaria e quella fiscale sono in grado di garantire che il debito pubblico denominato nella propria valuta nazionale non sia soggetto al rischio di default, nella misura in cui i titoli emessi dal governo sono sempre monetizzabili in modo equivalente».


Illuminante a tal proposito la metafora di Marattin sul tizio che si rifiuta di prestare soldi all’amico perché quest’ultimo è troppo indebitato: da “lo Stato è come una famiglia” a “lo Stato è come un amico coi buffi”.


Ricapitolando, per i suddetti motivi, non c’è alcuna relazione tra livello di debito e/o di deficit pubblico e tasso di interesse (spesa per interessi), come fa intendere Marattin. Se a questo aggiungiamo che ormai anche personaggi come Olivier J. Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario internazionale (FMI), ammettono apertamente che fintanto che il tasso di interesse reale che un paese paga sul debito pubblico è inferiore al tasso di crescita reale dei PIL, il debito pubblico non è un problema, se ne deduce che – poiché, come detto, la banca centrale può sempre fissare il tasso di interesse nominale che vuole – il debito pubblico per quei paesi che dispongono della sovranità monetaria non è praticamente mai un problema. Questo viene riconosciuto anche da uno studio dello stesso FMI, che afferma che, fintanto che questa regola viene rispettata, «non esistono limitazioni alla quantità di debito che uno Stato può emettere».


In realtà neanche questo è del tutto vero, nel senso che non è vero che un’elevata spesa per interessi rappresenti di per sé un problema per un paese che dispone della sovranità monetaria: esattamente come la banca centrale può monetizzare i nuovi titoli emessi, infatti, va da sé che può anche monetizzare la spesa per interessi (come sta facendo, tra l’altro, il Giappone), senza incrementare dunque la pressione fiscale.


Infine, l’ultimo punto, forse il più importante: non è affatto vero che un deficit pubblico debba necessariamente comportare un aumento del debito; la banca centrale, infatti, potrebbe tranquillamente soddisfare il fabbisogno del Tesoro senza che quest’ultimo emetta titoli per un valore corrispondente. Deficit senza debito, insomma. Come scriveva l’economista statunitense Dudley Dillard già negli anni Quaranta: «Perché mai la società dovrebbe pagare interessi alle banche commerciali e ad altri soggetti per ottenere il denaro necessario per mobilitare le risorse inutilizzate e per l’espansione economica? La creazione di nuova moneta non è forse una funzione propria del governo e, se così è, cosa impedisce al governo di creare direttamente la moneta necessaria, senza pagare interessi sulle obbligazioni alle banche commerciali? Non sembra esservi alcuna valida ragione economica per cui il governo non dovrebbe bypassare le banche commerciali e incrementare direttamente la massa monetaria senza ricorrere all’emissione di titoli di debito».


Ovviamente nulla di quanto detto vale per quei paesi che si indebitano in una valuta che non controllano, come avviene nell’eurozona. Come scrive la stessa BCE in un suo rapporto: «Sebbene l’euro sia una moneta fiat, le autorità fiscali degli Stati membri della zona euro hanno rinunciato alla possibilità di emettere debito esente dal rischio di insolvenza (non-defaultable debt)».


In questo senso, c’è una sola ragione per cui l’Italia sperimentò una “crisi del debito sovrano” nel 2011 e continua ancora oggi ad essere soggetta al ricatto dello spread: la decisione di adottare quella che di fatto è una valuta straniera, privandosi così di qualunque argine nei confronti degli attacchi speculativi della finanza (come per esempio la possibilità di intervenire sul mercato dei titoli sovrani per controllare il tasso di interesse, che di conseguenza viene lasciato libero di essere determinato dai mercati o è soggetto alle decisioni arbitrarie della BCE).


Insomma, ancora una volta Marattin ha confermato una delle grandi massime dei nostri tempi: in materia economica, nessuno è più ignorante dei competenti.

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