Sardine, l'ultimo stadio involutivo della democrazia immaginaria


di Jean De Mille


Da oltre due decenni, ad ogni tracollo elettorale le menti illuminate del progressismo italiano hanno puntualmente rilanciato la brillante idea di ricostruire il centrosinistra.


In questo metamorfico carrozzone, sempre più collocato su posizioni liberali e liberiste, sono confluite tutte le correnti del sinistrismo nazionale, dai reduci dell'eterno sessantotto agli arrabbiati dei centri sociali, passando per le infinite tonalità di rosso e di rosa degli eredi, o meglio degli esecutori testamentari, della tradizione comunista.


Il sinistrificio, autentica fabbrica del carrierismo e della disintermediazione sociale, autentica officina del pensiero omologato e del trasformismo di professione, ha funzionato proprio in quanto collettore capace di raggruppare, sotto la maschera di diversità drammatizzate quanto apparenti, le molte anime della sinistra. Questo ultime sono state raccolte e mobilitate su un duplice binario: la continua riproposizione emergenziale (il pericolo fascista) per l'elettorato, e scampoli di mobilità sociale per funzionari e gruppi dirigenti.


Ora mi sembra invece che il movimento delle sardine, dal punto di vista della composizione di interessi e di idee plurali, segni un momento di netta cesura: le piazze, e il linguaggio che esse veicolano, mostrano di considerare le ideologie novecentesche come rottami inservibili, tossici, nocivi.


Un rifiuto che non tocca solamente la bandiera rossa e la corrispettiva ideologia comunista: ma che si estende a tutta la pratica politica come l'abbiamo conosciuta, coi suoi momenti di articolazione, di contrapposizione e di scelta, con un conflitto in qualche misura fisiologico che i partiti e le istituzioni erano chiamati a mediare.


Al tempo presente, invece, il conflitto sembra espunto dalle agende nel nome dell'inclusione, della concordia sociale e della lotta all'odio, forzando la politica a perpetuare l'esistente, ad assolutizzare i determinismi economici legati a questa fase della globalizzazione.


La democrazia si svuota di concretezza e di sostanza, cessa di essere una democrazia sociale incarnata nella materialità dei diritti economici, nella regolamentazione del lavoro, nella redistribuzione operata dallo Stato, per approdare come in pieno ottocento all'uguaglianza astratta del liberalismo.


La democrazia, privata di contenuti tangibili, inizia a vedere erosa anche l'architettura costituzionale che ne ha retto storicamente la forma: la sovranità viene sradicata dal corpo elettorale e dalle istituzioni rappresentantive, per essere demandata ad organi tecnico-economici privi di legittimazione popolare e svincolati da un soggetto pubblico che li controlli.


La democrazia, ancora, continua il suo processo di smaterializzazione: non più sostanza, essa perde via via anche le proprie determinazioni formali, per trasformarsi nell'aleatorietà di un'emozione, di un sentimento, in liquido moralismo offerto al mercato istantaneo della comunicazione.


La democrazia delle sinistre liberali, e delle sardine che ne popolano le piazze, risiede unicamente nel loro pathos narrativo, nella loro pretesa e totalitaria bontà. Una bontà auto-proclamata e trasformata in oggetto di fede: con la stessa presunzione di innocenza con cui un Guaidó, una Áñez, un qualsiasi aspirante tiranno può inscenare la sua finzione a beneficio dei media e auto-proclamarsi presidente.


E con questo siamo arrivati all'ultimo stadio involutivo: quello della democrazia immaginaria.

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