La lezione della Brexit



di Gilberto Trombetta

Il declino italiano, da qualsiasi lato lo si voglia vedere (salari, PIL, produttività) inizia a metà degli anni 90 (grafico 1). SU questo concordano un po’ tutti tranne coloro in palese malafede (magari quelli che usano indici della produttività superati ed empiricamente obsoleti come il TFP).


Inizia cioè da quando l’Italia ha firmato il tratto di Maastricht (1992) e ha adottato l’euro (1997).

Si tratta di semplice correlazione o di causazione?

Guardando il problema dal punto di vista della domanda (le stupidaggini offertiste le lasciamo volentieri alle prefiche liberali), la risposta è lampante.

La crescita del PIL dipende dalla crescita della domanda aggregata che è composta dai consumi della famiglie (C), dagli investimenti privati (I), dalla spesa pubblica (G) e dalle esportazioni (X).

tenendo conto che buona parte dei consumi e degli investimenti a loro volta sono trainati dalla domanda, va da se che gli altri due fattori che compongono la domanda aggregata abbiano un speso specifico maggiore, influenzando sia nel breve che nel lungo periodo, gli altri due.

Andiamo allora a vedere un po’ di dati (tabella 1).


Nel 2016, il PIL reale italiano è inferiore del7,2% (circa 130 miliardi di euro) rispetto ai livelli pre-crisi.

Nello stesso lasso di tempo lo Stato italiano ha continuato a tagliare la spesa pubblica accumulando un avanzo primario di 256 miliardi di euro in soli 9 anni.


I consumi sono crollati del 5,5%, gli investimenti del 26,8%.

Importazioni ed esportazioni, dopo un’impennata iniziale delle prime e un crollo delle seconde dovuti agli effetti distorsivi dell’euro (grafico 2), hanno poi invertito il loro andamento facendo registrare un crollo delle prime (-11,4%) insieme della domanda interna (-10,2%) e una ripartenza delle seconde (+1,5%).

Questi numeri spiegano sia il crollo del PIL italiano che della produttività.

Dovuti prevalentemente ai tagli selvaggi alla spesa pubblica imposti dall’Unione Europea e a una valuta troppo forte per l’Italia che obbliga a penalizzare le esportazioni o i salari.

Questo dimostra in maniera plastica e incontrovertibile l’incompatibilità tra l’appartenenza a Unione Europea ed Eurozona e l’attuazione di politiche di stampo keynesiano e socialista dal lato della domanda (che in Italia corrisponderebbe con l’attuazione della Costituzione).

Oggi chi parla di dignità del lavoro, di salari, dell’intervento dello Stato nell’economia, di statalizzazioni e di stato sociale senza dire che tutto questo è profondamente incompatibile con l’architettura unionista o non sa di cosa parla o sta prendendo in giro la popolazione.

Questa è la lezione che qualsiasi forza politica di ispirazione socialista dovrebbe trarre dall’esito delle recenti elezioni inglesi e dalla Brexit.

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