Guido Salerno Aletta: "Cambia il mondo, dopo la Brexit finisce un’era in Occidente"



di Guido Salerno Aletta - Milano FInanza

Il 2020 è cominciato con un filotto, messo a segno dai sovranisti: il 15 gennaio è stato firmato l’Accordo tra Usa e Cina sulla fase 1 delle trattative commerciali su base bilaterale; il 29 gennaio, sempre a Washington, il Presidente Donald Trump ha firmato l’USMCA, il nuovo Trattato con Messico e Canada che sostituisce il Nafta; lo stesso giorno, a Bruxelles, il Parlamento europeo ha approvato le modifiche proposte dal Premier britannico Boris Johnson al Withdrawal Agreement, spianando definitivamente la strada alla Brexit, dopo l’approvazione da parte del Parlamento britannico resa definitiva il 23 gennaio con il Royal Assent. Da ieri 31 gennaio alle 23, ora di Greenwich, la Gran Bretagna non fa più parte della Unione europea. Niente sarà come prima.



Finisce un’era, dunque, in Occidente: sulla base di precisi verdetti elettorali, la Gran Bretagna da una parte e gli Usa dall’altra hanno risolto a favore dei rispettivi Stati il trilemma in base a cui la globalizzazione è incompatibile con la democrazia e con la sovranità nazionale.



Secondo i fautori del globalismo, gli Stati sarebbero un intralcio e la Democrazia va tollerata come un inutile orpello, perché entrambi interferiscono con la metrica del mercato, sinonimo di equilibrio: le decisioni vanno dunque assunte a livelli sovranazionali, da parte di tecnocrazie apolidi, in modo tale da rendere irrilevanti ad un tempo sia i confini tra gli Stati che le volontà popolari. L’Ordoliberismo è una sorta di religione laica, secondo cui il ruolo degli Stati è soltanto quello di rendere quanto più efficiente possibile il mercato, costi quel che costi. E’ dunque perfettamente inutile votare, come diceva Wolfang Schaeuble, l’allora Ministro delle finanze tedesco ed ora Presidente del Bundestag, al suo collega greco Janis Varoufakis durante le trattative per definire le misure di salvataggio e le contropartite di austerità: anche se si cambiano i Governi, le regole rimangono immodificabili. L’Unione Europea, con i Trattati di Maastricht ed il Fiscal Compact, è emblematica di questa gerarchia dei poteri.



Il vento contrario alla globalizzazione spirava forte già da anni, ma i benpensanti vi si sono opposti con sdegno, bollandolo come un atteggiamento non solo eticamente deteriore quanto intrinsecamente pericoloso: il populismo travalica comunque nel nazionalismo ed è foriero dei conflitti già visti: dapprima commerciali, quindi militari. D’altra parte, anche l’ultimo trentennio dell’800 fu caratterizzato da una forte globalizzazione dei mercati e dall’affacciarsi di nuovi Paesi produttori di materie prime ed in agricoltura: alla violenta deflazione dei prezzi che ne derivava, si reagì con una ancor maggiore competizione produttiva che aggravò il fenomeno. Lo sfruttamento delle colonie era insufficiente a riequilibrare i conti esteri, il Gold Standard impediva la svalutazione della moneta, e la guerra mondiale fu l’esito inevitabile di un conflitto, all’inizio tutto europeo, tra blocchi imperiali.



Stavolta, dopo la crisi americana del 2008 e quella europea del 2010, ogni tentativo di contrastare gli effetti negativi della globalizzazione, al proclamato fine di proteggere l’occupazione e la produzione nazionale, è stato considerato prodromico ad un conflitto incontenibile. Senza riflettere mai sul fatto che sono stati gli squilibri strutturali sull’estero, finanziari e commerciali, degli Usa, dell’Irlanda, della Grecia, del Portogallo e della Spagna, a determinare il collasso dei mercati. La libertà dei commerci, senza equilibrio, è insostenibile.



Il Conservatore Boris Johnson portando a compimento la Brexit ed il Repubblicano Donald Trump con le sue guerre doganali hanno segnato la fine del sogno neoliberista proclamato dai loro rispettivi predecessori di partito: da Margareth Thatcher che fu Premier del Regno Unito dal 1979 al 1990, e da Ronald Reagan che fu Presidente degli Usa dal 1981 al 1989. Siamo di fronte al fallimento di due strategie parallele: il Big Bang finanziario propugnato dalla Thatcher e la New Economy sostenuta da Reagan non sono stati in grado di promuovere una creazione di occupazione e di reddito in grado di rimpiazzare il declino della manifattura dopo quello dell’agricoltura. Non è casuale il fatto che, nell’accordo con la Cina, gli Usa abbiano preteso un maggior export soprattutto per i prodotti agricoli e manifatturieri, inserendo quelli energetici al fine di assicurare un mercato a prezzi sostenuti dalla maggior domanda estera. Il peso dei servizi finanziari è rimasto marginale: i voti si contano, non si pesano.



In entrambi i casi, siamo di fronte ad un’onda lunga. Il Referendum sulla Brexit, tenutosi nel 2016, non fu determinato solo dalla strenua contrarietà di David Cameron alla introduzione nei Trattati europei del Fiscal Compact, dell’ESM e della Banking Union: Cameron aveva già espresso nella campagna elettorale del 2013 la volontà di rinegoziare le condizioni di partecipazione del Regno Unito nell’Unione. Nel 2016, la campagna presidenziale di Donald Trump, che ebbe come slogan “Make America Great Again”, fu tutta impostata sulla necessità di riequilibrare i conti esteri, modificando i Trattati multilaterali che avevano penalizzato i lavoratori americani ad esclusivo vantaggio del Big Business e delle Multinazionali: Trump, appena eletto, ha messo sotto tiro l’avanzo commerciale strutturale di Cina, Messico, Canada, Giappone, Corea del Sud, Germania e Turchia. Dopo due anni di batti e ribatti, ha ottenuto dalla Cina l’impegno ad incrementare il proprio import dagli Usa per 200 miliardi di dollari in due anni; anche nei confronti di Messico e Canada, con l’USMCA che sostituisce il Nafta che risale al 1994, ha ottenuto per gli Usa condizioni commerciali assai più favorevoli.


Non è casuale il fatto che ad abbandonare il tradizionale multilateralismo commerciale ed istituzionale siano due Paesi, Gran Bretagna e Stati Uniti, che hanno un rilevante passivo strutturale della bilancia dei pagamenti correnti, determinato soprattutto dalla componente merci che non viene compensata dai servizi finanziari, e che non è risolvibile a monte attraverso la svalutazione della moneta. Gli squilibri socioeconomici e territoriali interni a questi due Paesi sono stati determinanti: l’occupazione prevalente nel settore dei servizi non ha compensato dal punto di vista reddituale i precedenti impieghi nel comparto manifatturiero mentre i redditi agricoli devono essere comunque sussidiati, più o meno direttamente. Se, ormai da lungo tempo, non è più il surplus della produzione delle campagne che consente l’urbanizzazione e l’industrializzazione, ma sono queste ultime a sostenere l’agricoltura, l’apertura progressiva ai mercati internazionali di prodotti agricoli e manifatturieri più convenienti in termini di prezzo ha reso sempre meno praticabile questa compensazione fiscale. Lo stesso settore manifatturiero scompare, sotto la pressione della globalizzazione modellata sul dumping sociale, fiscale ed ambientale.



Non è affatto casuale, quindi, che sia stato comune anche il tema del contrasto alla immigrazione incontrollata, che comporta la concorrenza sleale del lavoro in nero: non solo Donald Trump ha fatto del completamento del muro alla frontiera con il Messico un cavallo di battaglia elettorale, ma ha preteso un salario minimo più elevato per i lavoratori che in Messico producono automobili da vendere negli USA. Cameron, parimenti, negli Accordi presi con Bruxelles e respinti nel referendum che ha dato luogo alla Brexit, aveva contrattato limiti più stringenti per la erogazione dei sussidi sociali e di disoccupazione agli immigrati europei, sempre più numerosi dopo la crisi del 2010. D’ora in avanti, l’immigrazione in Gran Bretagna sarà gestita preferendo le qualifiche professionali più elevate.



Dopo la Brexit, il futuro delle relazioni commerciali tra Gran Bretagna ed Unione europea si fonda su un requisito che trova posto nella Dichiarazione politica, che ha valore di indirizzo: per quanto riguarda la competizione commerciale su un piano di gioco livellato, non c’è più l’impegno ad un allineamento dinamico agli standard dell’Unione ma solo quello a non regredire rispetto ai livelli esistenti al termine del periodo di transizione. In ordine al commercio di beni, mentre si conferma che Uk ed Ue saranno due mercati distinti, viene meno il riferimento al “single custom territory” per via dello speciale trattamento doganale riservato all’Irlanda del Nord e della creazione di una frontiera interna, con l’impegno ad accordi ambizioni per evitare frizioni doganali e per combattere le attività illegali.



C’è una questione dirimente: l’ambito di libertà che avrà il Regno Unito nel fare trattative commerciali autonome con altri Paesi. Non facendo più parte del Mercato interno europeo e non essendo neppure membro della Unione doganale, se le relazioni commerciali tra Uk ed Ue avverranno sulla base di un “accordo di libero scambio”, ciò potrebbe essere incompatibile con un accordo simmetrico tra Uk ed Usa, magari aderendo all’USMCA, visti i dazi imposti dalle altre due parti, Usa ed Ue. Sarebbe però inconcepibile che, una volta importate a dazio zero dagli Usa in UK, le stesse merci potessero essere riesportate nella Ue evitando i dazi. Serve un paradigma nuovo.



Siamo già di fronte allo sdoppiamento del sistema delle relazioni internazionali: accanto a quello mercatista tradizionale su cui si basano il Wto e l’Ue, indifferente agli squilibri strutturali che determinano crisi ricorrenti, se ne sta formando un altro, guidato dagli Usa, che ripropone il modello delle relazioni intrattenute dall’Antica Roma con gli Stati clienti, laddove ai benefici concessi corrispondevano vincoli ed obblighi altrettanto precisi. L’accesso al gigantesco mercato americano sarà garantito in cambio, innanzitutto, dell’equilibrio nelle transazioni commerciali.



La Brexit segna una cesura ancora più netta, che non riguarda solo il processo aggregativo europeo: disconosce in modo radicale un progetto di relazioni internazionali in cui l’istanza economica e monetaria prevale sovranamente su quella democratica e nazionale.



Di Occidente ce n’è sempre uno solo, ma la globalizzazione mercatista non è più al suo zenit.

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