Battaglia aerea sui cieli siriani: in gioco c'è la stabilità di tutto il Medio Oriente

Piccole Note

Nella notte tra il venerdì e sabato scorso la guerra siriana ha conosciuto una convulsa quanto pericolosa svolta. Jet israeliani si sono levati per colpire obiettivi in Siria, nei pressi di Palmira, una delle città simbolo di questa sporca guerra, da poco strappata dalle mani dell’Isis dall’esercito di Damasco e dai russi.

L’aviazione israeliana avrebbe avuto di mira obiettivi hezbollah, questa almeno la motivazione addotta da Tel Aviv, ché quella siriana è tutt’altra: il raid israeliano, come nelle precedenti occasioni, avrebbe avuto lo scopo di favorire le manovre militari dei jihadisti in danno delle truppe di Damasco e dei suoi alleati.

Versioni divergenti ma compatibili, stante che hezbollah è considerato un movimento terrorista da Israele (e non solo) e, allo stesso tempo, è un alleato fondamentale di Damasco, dal momento che senza il suo aiuto il Paese da tempo sarebbe stato preda dei tagliagole dell’Isis e compagni.

Altre volte Israele ha violato lo spazio aereo siriano, noncurante della sovranità altrui, per colpire i “terroristi” di hezbollah e, danno collaterale, anche militari siriani. Ma stavolta è andata diversamente: la contraerea siriana ha aperto il fuoco.

Pare che i siriani abbiano impiegato gli S200, sistema d’arma obsoleto ma reso più efficace da alcune modifiche fatta in casa. Tanto che tali vetusti armamenti bellici avrebbero abbattuto uno dei caccia di Tsahal. Cosa che Israele ha smentito categoricamente.

Al di là della veridicità o meno dell’abbattimento, l’incidente ha incendiato le parti. Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Liberman ha spiegato che Tel Aviv non vuole entrare nel conflitto siriano né è interessato alla rimozione di Assad, come invece reputa la controparte.

E ha ribadito che lo scopo del raid era impedire il passaggio di armi ad hezbollah e che Tel Aviv non può permettere tale transito. Sul punto, ha chiarito, Israele non può accettare «nessun compromesso».

E ha minacciato che se dovesse riaccadere un simile incidente Israele «non avrebbe esitazioni a distruggere tutte la contraerea dell’esercito siriano».

Un’escalation che potrebbe trascinare Israele nella guerra siriana. Che forse è proprio quel che vogliono alcuni ambiti israeliani. Tali ambiti hanno sperato che l’onda jihadista travolgesse il governo di Damasco, che considerano un nemico esistenziale per Israele.

Constatare che invece Assad è rimasto in sella, anzi che il suo esercito sta riconquistando palmo a palmo il territorio caduto sotto il tallone jihadista deve essere motivo di frustrazione.

Una frustrazione che si mischia all’irritazione di vedere in azione ai propri confini sia le milizie di hezbollah che quelle iraniane, ambedue considerate terroriste dalle parti di Tel Aviv (e altrove).

Da qui il nervosismo di tali ambiti israeliani. Che sembrano voler cercare lo scontro, anche per sfruttare il momento favorevole offerto dall’indebolimento degli avversari, che si sono logorati nella guerra siriana.

Basti pensare che ai primi di marzo Avigdor Liberman, in colloqui tenuti a Washington con importanti esponenti dell’amministrazione Usa, ha insistito sulla possibilità di una guerra contro hezbollah in Libano, la quale secondo lui potrebbe scoppiare in qualsiasi momento.

Tale conflitto sarebbe molto diverso da quello del recente passato. Allora il governo di Beirut rimase neutrale, oggi probabilmente l’esercito libanese si schiererebbe con hezbollah.

Cosa che causerebbe uno scontro ad ampio raggio, che riporterebbe il «Libano all’età della pietra». A riportare il contenuto dei colloqui di Liberman negli Stati Uniti il sito al Monitor, che ha buone fonti in Israele.

Insomma, tanto nervosismo e tanta tensione a Tel Aviv. Che rischia di tracimare, trascinando la Casa Bianca in un nuovo conflitto mediorientale, cosa che Trump vorrebbe evitare dal momento che egli immagina di rilanciare l’America con un programma improntato all’isolazionismo.

Un pericolo del quale sembra sia conscia anche la Russia, dal momento che il Cremlino ha convocato l’ambasciatore israeliano a Mosca per chiedere spiegazioni circa il raid su Palmira.

Un’iniziativa irrituale: mai prima d’ora Mosca aveva reagito in maniera così eclatante ai raid israeliani in Siria. Se si considera che Putin ha ricevuto Netanyahu solo una decina di giorni fa, e che Tel Aviv e Mosca hanno una linea rossa per le emergenze, tale convocazione assume un significato ancora più importante.

Putin ha voluto dare un segnale inequivocabile al governo di Tel Aviv. Non scaricherà Assad e i suoi alleati.

Israele spesso motiva le sue iniziative militari come dettate da ragioni di sicurezza. La mossa del Cremlino ha a che vedere con tali ragioni. Si spera che in Israele sia tenuta in debito conto. Ne va della stabilità di tutto il Medio Oriente, Israele compresa.

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