"Ieri è suonata la «sveglia», per usare le parole di Netanyahu. La sfida mortale è stata lanciata"


Piccole Note


Venti di guerra riprendono a spirare in Medio Oriente: l’annuncio delle dimissioni del primo ministro libanese, Saad Hariri, avvenuto a Ryad, s’intreccia con il giro di vite che si sta consumando nella stessa Arabia Saudita, dove si registrano delle vere e proprie “purghe”.


«La fine della guerra all’Isis in Siria e Iraq, ormai imminente», spiega Giordano Stabile sulla Stampa del 5 novembre, «sta sconvolgendo gli equilibri in Medio oriente. Teheran in questo momento è il grande vincitore. Ha mantenuto Assad al potere contro l’insurrezione sunnita».

«Allo stesso modo, in Iraq la vittoria contro l’estremismo sunnita è arrivata grazie all’appoggio sia americano che iraniano al premier Haider al Abadi», ma è evidente che al Abadi guardi verso Teheran piuttosto che verso Washington.

«Questo nuovo equilibrio in Mesopotamia», continua Giordano Stabile, «è visto come una minaccia mortale dall’Arabia Saudita. Mohamed Bin Salman, l’uomo forte del regno, ha cercato di rafforzare l’alleanza con Washington e con gli altri Stati sunniti del Golfo, ma è incappato in una guerra in Yemen senza sbocchi e in una crisi con un’altra piccola ma influente potenza sunnita, il Qatar. A questo punto non poteva che giocare la carta libanese, per cercare una controffensiva».

Già, più che un atto politico, quello di Hariri è una dichiarazione di guerra, una «controffensiva» appunto. Anche perché ha voluto drammatizzarlo al massimo, affermando che hezbollah, con il quale ha governato finora, nutrirebbe propositi omicidi nei suoi confronti, come prima verso il padre, assassinato il 14 febbraio 2005 (accuse ad oggi non riscontrate dal Tribunale internazionale chiamato a far luce sul caso, nonostante 8 anni di indagini e molti passi falsi).

A confermare la mano saudita dietro l’iniziativa di Hariri è Alberto Stabile in un articolo pubblicato sulla Repubblica dello stesso giorno: «Quelle di Hariri sembrano dimissioni annunciate. Basta rileggere le affermazioni fatte qualche giorno fa dal ministro saudita per gli affari del Golfo, Thamer al Sabhan, fedelissimo dell’erede al trono Mohammed bin Salman, il quale, dopo una breve puntata a Beirut, la scorsa settimana, ha fatto appello ad abbattere gli hezbollah, annunciando che nei prossimi giorni vi sarebbero state “novità stupefacenti”».

Mohamed bin Salman (anche Mbs) non si è limitato a premere per le dimissioni di Hariri ma, per anticipare la sua ascesa al trono, ha dato il via a purghe che stanno portando in carcere principi reali, ministri ed esponenti della società civile. Una repressione che è iniziata tempo fa, quando l’attuale sovrano lo ha nominato suo successore al posto del legittimo erede, Mohammed ben Nayef, uno dei primi a finire agli arresti.

Proprio con quest’ultimo aveva lavorato, come consigliere, Mansour ben Moqren, perito questa domenica in un incidente aereo. Un repulisti in piena regola quello saudita, che serve e consolidare la sua presa nel regno, essenziale per rilanciare Ryad, anche in chiave internazionale.


D’altronde «la crisi col Qatar e l’escalation della guerra in Yemen sono opera sua. Ha una linea molto dura, anche perché sa di avere il supporto di Trump [sul punto vedremo… ndr.]», spiega Toby Matthiesen, fellow di Medio Oriente a Oxford ad Antonello Guerrera in un articolo pubblicato sulla Repubblica del 6 novembre. «Con queste premesse, uno scontro con l’Iran è sempre più probabile. Il sentiero preso è molto pericoloso», conclude il ricercatore britannico.


Quel che si prospetta, dunque, è l’inasprimento del conflitto con l’Iran. Anzitutto in Yemen, «dove da tempo l’Arabia Saudita è a capo di una coalizione internazionale contro i ribelli sciiti Houti […] che ha generato proteste in tutto il mondo, soprattutto per la brutalità dei bombardamenti, che dal 2015 hanno causato migliaia di morti, spesso civili».

Ma anche in Libano contro hezbollah, come da accuse lanciate sabato da Hariri contro Il “partito di Dio”. E ciò perché anche hezbollah è uscito rafforzato dalla guerra siriana.




Non solo ha allargato l’area sotto il suo controllo, ma la vittoriosa campagna di Qalamum (territorio libanese strappato al controllo dall’Isis da hezbollah e dall’esercito libanese) ne ha accresciuto il consenso nel Paese dei cedri, «in particolare fra i cristiani», come spiega Imad Salamey, direttore dell’Institute for Social Justice and conflict resolution della Lebanese American University di Beirut a Francesca Caferri sulla Repubblica del 5 novembre.


L’opposizione di Ryad all’Iran e a hezbollah incontra il netto favore di Tel Aviv. A spiegarlo è ancora la Caferri: l’esercito israeliano «a settembre ha fatto le esercitazioni militari più imponenti degli ultimi anni, anche per prepararsi a una possibile nuova guerra in Libano. “Il prossimo conflitto con hezbollah” è il titolo di un articolo pubblicato a luglio dalla prestigiosa rivista dell’Israel Institute for national security studies. La scelta e le parole di ieri del premier Hariri non fanno che aumentare i timori».

Infatti Netanyahu non ha fatto mancare il suo plauso all’annuncio del premier libanese: «Se gli arabi e gli israeliani sono d’accordo contro l’Iran, il mondo dovrebbe ascoltare». Già, perché il governo di Tel Aviv sa bene che un eventuale confronto contro Teheran sarebbe devastante anche per Israele. Serve quindi l’aiuto, anche militare, della comunità internazionale. Da qui il suo appello.

Il primo ministro israeliano sembra voler forzare la mano. Anche perché un conflitto potrebbe sedare le polemiche interne, dove non solo deve sostenere le critiche delle opposizioni ma anche quelle del Capo dello Stato, che ha stigmatizzato asserite derive anti-democratiche del suo governo. Per non parlare delle inchieste che lo vedono coinvolto e che potrebbero travolgerlo.

Ieri è suonata la «sveglia», per usare le parole di Netanyahu. La sfida mortale è stata lanciata. Vedremo gli sviluppi.

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