Elezioni Israele: Netanyahu perde, ma spera ancora di ribaltare



Piccole Note

Netanyahu non ha la maggioranza. Così le elezioni israeliane, con il 91% dei seggi scrutinati.


Risultato preventivato da tempo e che l’ultimo sondaggio aveva messo in discussione: primi appaiati i due opposti partiti centristi, Likud e Kaohl Lavan, ma nessuno dei due può formare un governo senza Israel Beitenu del kingmaker Avigdor Liberman.


Vince Gantz, ma Netanyahu non concede


Resta un ultimo dubbio sul fatto se Kaohl Lavan abbia preso più voti del Likud, ma tutti i media danno 32 seggi contro 31 e sembra andata.


Arrivare primo avrebbe consentito a Netanyahu di poter chiedere il mandato per formare un governo: pur se destinato a fallire, gli avrebbe permesso di prolungare di molto il suo attuale governo. Nella speranza di ribaltare la situazione in qualche modo.


Ad oggi tale prospettiva sembra chiusa e, ad occhio, sembra frutto di un accordo tra Israel Beitenu e Kahol Lavan, concluso durante la campagna elettorale, dato che, rispetto ai sondaggi, il primo perde un seggio in favore del secondo, consentendo così a quest’ultimo di riuscire come primo partito.


Benny Gantz, l’ex Capo di Stato Maggiore prestato alla politica e leader di Kaohl Lavan, parla di “missione compiuta” e si muove già come primo ministro, ribadendo la sua volontà di fare un governo di unità nazionale con Israel Beitenu e Likud, ma senza Netanyahu.


Ma Netanyahu non cede e non concede la vittoria. Non domo, sta cercando di tenere uniti i suoi, affinché non lo mollino per accedere all’idea dell’avversario.


Di interesse in tal senso un articolo di Haaretz che racconta la sua adunata post elettorale, alla quale ha chiamato a raccolta i suoi. In un’aula che conteneva 1000 persone, annota Anshell Pfeffer, ne sono arrivati solo 300.


Tra gli assenti, annota Pfeffer, alcuni dei suoi stessi ministri. Mentre tra i presenti, il suo acerrimo oppositore interno Gideon Sa’ar, dal “sorriso enigmatico”, che a quanti lo salutavano come ” prossimo leader” o “prossimo primo ministro” nulla obiettava, limitandosi a stringere mani.


Clima da grandi cambiamenti, dunque, nel Likud, ma ancora sottotraccia, dato che tutti restano in attesa degli eventi. Perché Netanyahu è ancora convinto di poter ribaltare la situazione.


La variabile guerra all’Iran


Per questo non ha annullato il suo viaggio alle Nazioni Unite della prossima settimana, dal quale spera di ricevere un aiuto in extremis da Trump. E questo aiuto potrebbe essere una guerra contro l’Iran, è l’implicito messaggio di Pfeffer.


Una grande guerra bloccherebbe la politica israeliana, consentendo a Netanyahu di rimanere al timone.


D’altronde ci ha già provato il 10 settembre, quando voleva far guerra a Gaza. Una mossa che gli avrebbe consentito di sospendere le elezioni.


Non c’è riuscito per l’opposizione del Procuratore generale, ma soprattutto per il niet dell’esercito. Ma con Trump è diverso: non c’è nessun generale israeliano a fermarlo.


Si tratta di convincere il presidente Usa a bombardare l’Iran in risposta all’attacco all’Aramco. Trump sta ricevendo pressioni in tal senso. Il senatore repubblicano Lindsey Graham, a nome dei neocon, ha chiesto al presidente di bombardare i pozzi petroliferi iraniani.


Se ciò avverrà, sarà guerra totale, avverte Teheran, che in una nota ufficiale, fatta pervenire alla controparte tramite la Svizzera, ha comunicato che in caso di attacco non si sarebbe limitata a cercare di abbattere i bombardieri
americani – cosa possibile, ma in maniera limitata.


Le forze di Teheran avrebbero contrattaccato, minacciando dunque le varie basi militari e navi Usa a portata dei suoi missili. Guerra totale, appunto.


C’è dibattito in America. Non frena solo il Pentagono, anche diversi senatori stanno tentando di convincere Trump a evitare mosse azzardate. Il presidente, a sua volta, ha ingaggiato un significativo duello via twitter con Graham.


Il neocon lo aveva rimproverato di debolezza per non aver attaccato l’Iran nel giugno scorso, in risposta all’abbattimento di un drone Usa.


Un attacco esplicito al presidente, volto a spronarlo a essere forte ora, cioè a bombardare. Una critica alla quale Trump ha risposto secco: “No Lindsey, era un segno di forza che alcune persone non capiscono!”. Segno che Trump si sente più forte.


Ieri Pompeo è volato in Arabia Saudita, non si capisce se per forzare la loro adesione ad accogliere le accuse americane contro Teheran, finora respinte, o per altro. Di certo, il suo tour avrà un qualche effetto sulla criticità, che Trump deve risolvere in qualche modo. Non vuole la guerra, ma…


La situazione resta critica e Netanyahu cercherà di capitalizzare. Ma rischia tanto, soprattutto per le inchieste che lo inseguono, che i suoi antagonisti israeliani gli ricordano fin troppo spesso. Non cercando compromessi, non ne trova.


E in mancanza di compromessi, ad oggi il destino che gli prospettano i suoi nemici interni è tetro: o il carcere ordinario o una cella “nell’all’ala 10 del carcere di massima sicurezza di Maasiyahu di Ramle”, come conclude Pfaffer. Vedremo.

Ps. Oggi Trump ha nominato un nuovo Consigliere per la Sicurezza nazionale, Robert O’Brien, che ha mediato con la Corea del Nord per alcuni prigionieri Usa. Non un falco, dunque, ma un mediatore. Scelta di realismo e diplomazia, giunta dopo le elezioni israeliane. Il presidente Usa si sente più forte.

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