Hong Kong: i paradossi della rivolta colorata



Piccole Note

La rivolta di Hong Kong è descritta generalmente come un lotta per la libertà. Per analisti e media non occidentali si tratta dell’ennesima rivoluzione colorata messa in campo dal Dipartimento di Stato americano per contenere la Cina (Piccolenote).


Val la pena riferire quanto scrive, su Ria Novosti, Ivan Danilov, sulle recenti sanzioni Usa contro le autorità di Hong Kong, che nota come il voto congiunto di repubblicani e democratici denoti che nelle élite americane sia unanime la spinta a frenare il Dragone.


Hong Kong e le interferenze cinesi


Così non è solo Trump ad avere questa idea geopolitica, quella che ha dato vita alla guerra dei dazi. Anzi, si potrebbe addivenire all’ipotesi che Trump, col suo approccio pragmatico, sia meno ostile al Dragone dei suoi antagonisti, che invece vedono nel confronto con Pechino una lotta esistenziale.


L’accusa mossa alle autorità di Hong Kong, alla base delle sanzioni, è di non rispettare lo Stato di diritto. Da cui discende, scrive Danilov, che, essendo la Cina inadempiente agli obblighi contratti quando riprese il controllo dell’ex colonia britannica, essa dovrebbe essere scorporata dal Celeste impero.


Come riferisce la Bbc, il Congresso ha anche approvato una risoluzione che riconosce “il rapporto di Hong Kong con gli Stati Uniti e condanna le ‘interferenze’ di Pechino”.

Così Danilov: “Solo la presenza di un acuto senso dell’eccezionalismo americano nei politici di Washington può spiegare l’incredibile arroganza che consente loro di condannare Pechino per ‘interferenze’ negli affari della regione cinese e allo stesso tempo” di farsi giudice e e garante di asserite inadempienze “sul processo di restituzione” alla Cina dell’ex Colonia britannica”, e non Colonia americana”.


La ricchezza di Hong Kong e le nostalgie coloniali


Danilov aggiunge che la ricchezza di Hong Kong, che garantisce lavoro e alti salari e tanto altro, “esiste solo perché Hong Kong è la tradizionale ‘porta finanziaria della Cina’”. Così, se i ragazzi che protestano hanno soldi, lavoro e benefici negati ad altri è solo grazie alla Cina continentale, che ha attirato certa prosperità.


Il paradosso è che i rivoltosi sono felici delle sanzioni, che impoveriranno ancora di più Hong Kong, già provata dalla lotta continua, che ha chiuso di tanti esercizi commerciali e distrutto il turismo.


A nutrire sentimenti indipendentisti, riferiscono le ricerche, sono i giovani, che non hanno vissuto il dominio coloniale britannico. Al contrario, le persone che l’hanno vissuto si sentono cinesi.


Il Chinadaily riporta diverse testimonianze sul punto, rammentando un particolare ignorato, cioè che nella Hong Kong britannica non c’erano elezioni, introdotte invece, pur con limiti, con il suo ritorno alla Cina.


Discutibile anche la mannaia delle sanzioni per la repressione da parte della polizia, stante che essa fa esattamente quel che fanno i colleghi francesi con i gilet gialli e quelli spagnoli con i catalani o quanto fa la stessa polizia americana con le proteste di piazza.


Peraltro, al di là di un incidente vero, non si registra una particolare brutalità della polizia di Hong Kong rispetto ad altre, anzi, il contenimento, rispetto alla portata della rivolta e ai milioni di danni conseguenti, si può considerare moderato. Altri avrebbero usato il napalm…


L’impossibile indipendenza e l’assassino


Non giustificate da altro, le condanne verso le autorità di Hong Kong appaiono motivate dal fatto che non acconsentono alle richieste dei rivoltosi. Questi chiedono l’indipendenza, cioè quel che le autorità non possono concedere, similmente a quanto accade in altre parti del mondo.


Quando il Kurdistan iracheno chiese l’indipendenza, Washington appoggiò il governo di Baghdad nel rifiutarla. E la Ue sostenne e sostiene Madrid contro l’indipendentismo catalano.


Chiudiamo con una notizia: l’uomo che è stato catalizzatore della protesta sta per uscire dal carcere di Hong Kong, nel quale era ristretto per riciclaggio e altro.


Inseguito dalla magistratura di Taiwan per aver ucciso la fidanzata, non poteva essere estradato per la mancanza di una legge specifica, da cui il disegno di legge per introdurre l’estradizione, per Taiwan come per Pechino, come ragionevole fosse essendo Hong Kong una città cinese.


Ormai ritirata la legge, l’uomo dovrebbe essere consegnato egualmente a Taiwan, che però ha chiesto alle autorità di Hong Kong di tenerlo in prigione oltre il dovuto (South China Morning Post). Bizzarrie dell’Estremo oriente.


Quando Hong Kong tornò alla Cina, Deng Xiaoping disse: “Hong Kong può criticare il governo ma non potrà mai essere trasformato in una base per contrastare il Paese e rovesciare il governo centrale” (Global Times). Evidentemente era consapevole dei rischi.


Concludiamo con un cenno di China Daily: “Quelli che pensano che il governo centrale ricorrerà a una repressione […] dimenticano il detto di Sun Tzu secondo il il quale vincere le guerre senza combattere è “l’apice dell’abilità'”. Pechino si limiterà a contenere la protesta, mentre questa proseguirà a oltranza, con danni progressivi.

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