Trump impeached



Piccole Note

Il titolo che abbiamo messo alla nostra nota campeggia sulla prima pagina del New York Times e del Washington Post e di altre testate Usa. Non un voto parlamentare, ma una condanna definitiva. Più in linea con la realtà, The Hill titola: “La Camera vota l’impeachement di Trump”, che è poi quanto successo ieri.


La coreografia mediatica è indicativa della narrativa che è stata costruita in questi anni contro il presidente degli Stati Uniti.

La maledizione dell’impeachement


Fin dalle elezioni del 2016 l’establishement americano aveva messo nel mirino il tycoon che l’aveva umiliato vincendo un’elezione già assegnata alla sua concorrente Hillary Clinton. E già da allora aveva individuato il mezzo con cui eliminare l’intruso: l’impeachement. Trump come Nixon aveva decretato.


Così sull’autorevole sito Politico il 18 aprile 2016: la parola “‘Impeachment’ è già sulla bocca di esperti, costituzionalisti e persino di alcuni membri del Congresso, nonché sugli editoriali dei giornali. Da destra, l’avvocato di Washington Bruce Fein dà probabilità di 50/50 sul fatto che il presidente Trump commetterà reati incommensurabili come presidente”.


“Il deputato della Florida Alan Grayson, liberale, afferma che l’insistenza di Trump sulla costruzione di un muro al confine tra Stati Uniti e Messico potrebbe portare a un percorso verso l’impeachment appena il calcestruzzo sarà versato nonostante l’opposizione del Congresso”.


“Anche il più autorevole leader repubblicano della Camera di commercio degli Stati Uniti ha recentemente usato pubblicamente questa parola quando ha parlato del contraccolpo sociale della guerra commerciale con la Cina”.

Dal Russiagate alla telefonata Trump-Zelensky


Tale il verdetto. Avevano sperato nel Russiagate, ma senza risultato. Ora, approssimandosi nuove presidenziali senza esser riusciti ad avviare la pratica, si è dovuto ripiegare su una telefonata tra il presidente Usa e il suo omologo ucraino, Volodimir Zelensky, forzandone il senso per montare il caso (vedi Piccolenote).


Dopo il lungo processo, condotto dai democratici, ieri il voto finale da parte della Camera, sempre dei democratici. Dare a tale voto una veste di austera imparzialità, come è stato fatto da tanti media, è una scorrettezza non solo verso Trump, ma verso i lettori.


Una delle tante, d’altronde. La parzialità dei mezzi di informazione mainstream, che poi sono gli stessi che accusano Trump di diffondere Fake News, è ormai palese e fa indulgere all’ironia.


Come avviene per il commento di un analista della Cnn scioccato per il sondaggio condotto dalla sua stessa rete sul supporto all’impeachement da parte dell’elettorato del partito democratico, crollato del 13% rispetto all’inizio del procedimento. “Non ci credo”, ha dichiarato, ammettendo poi che era sicuro della vittoria della Clinton nel 2016…


Come comico risulta un altro commento all’impeachement, quello di uno dei pochi repubblicani che si sono uniti ai democratici, il deputato Hakeem Jeffries, il quale ha paragonato la lotta contro Trump a quella per la fine della schiavitù in America. Peccato che i democratici allora stavano con gli schiavisti…

Forzare il Senato


Detto questo, ora inizia il processo al Senato, dove la maggioranza è in mano ai repubblicani. Una parte anche questa, certo, ma sono le regole del gioco. E qui l’esito si presuppone diverso.


I democratici temono che il castello che hanno costruito possa essere demolito da una contro-inchiesta che non si è avuta alla Camera, dato che Trump non ha voluto difendersi in quello che ha definito, non senza ragioni, un processo farsa (Piccolenote).


Ma il passaggio del testimone dalla Camera al Senato non è automatico. La Camera deve nominare dei rappresentati da inviare presso l’altro ramo del Congresso e trasmettere gli atti.


Da qui l’idea di ritardare il passaggio e contrattare con i repubblicani. Si tratta cioè di cercare di “forzare il leader della maggioranza del Senato Mitch McConnell (repubblicano) perché sia condotto un procedimento con condizioni più favorevoli ai democratici”.


“E se non viene raggiunto un accordo, hanno sostenuto alcuni, il procedimento potrebbe essere ritardato indefinitamente, negando a Trump la prevista assoluzione” (Washington Post).


Si andrebbe così alle presidenziali con “Trump impeached”, nonostante la parzialità della condanna, che sarebbe propagandata come un dato di fatto.

Una rivoluzione colorata nel cuore dell’Impero?


Gioco sporco. D’altronde gli avversari di Trump sanno che il loro processo non ha scalfito l’elettorato come immaginavano. Da qui anche l’idea di alimentare una protesta popolare in America (The Nation).


Un movimento extraparlamentare, una “rivoluzione colorata” nel cuore dell’impero. Il Deep State Usa sa farle, come ha dimostrato nelle ex repubbliche sovietiche e finanche nel cuore dell’Impero d’Oriente, quando ha portato Boris Eltsin, succube di Washington, sugli scudi dell’ex Unione sovietica.


Sarebbe estremamente ironico che gli Stati Uniti arrivassero a condividere il destino della loro storica antagonista. Difficile che accada, ma dà l’idea della ferocia della battaglia in corso.


Ferocia ben nota al bersaglio di questa battaglia, che ha chiesto: “Pregate per me“. Un cenno che stride con le pose da bullo tipiche di Trump e che è stato interpretato come un segno di debolezza.


In fondo sarebbe facile per lui porre fine a tutto questo: gli basterebbe dar seguito alle “guerre infinite”, come chiedono i suoi veri avversari, che usano il partito democratico come altro e più oscuro. Finora non ha ceduto. E c’è in questa perseveranza qualcosa che va oltre il suo connaturato protagonismo.

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