Fulvio Scaglione: con la tregua in Siria finisce l'epoca 11 settembre

di Fulvio Scaglione* - occhidellaguerra

Dopo cinque anni di una guerra civile tra le più crudeli e di una guerra per procura tra potenze che ha fatto quasi 300 mila morti, l’unica cosa decente è augurarsi che l’accordo per il cessate il fuoco in Siria, siglato da Russia e Usa e accettato sia dal Governo di Damasco sia dall’Alto comitato negoziale siriano che raccoglie i gruppi dell’opposizione armata cosiddetta “moderata”, e destinato a entrare in vigore da questa sera, possa funzionare. Se la tregua reggerà, le sofferenze dei civili saranno alleviate e sarà magari avviato un negoziato politico degno di tal nome. Potremmo forse, e finalmente, vedere Russia e Usa impegnati insieme contro l’Isis e Al Nusra.

Come si vede, abbondano i “se” e i “ma”. Molti dei gruppi ribelli, anche tra quelli appoggiati da Paesi come Turchia e Arabia Saudita, stretti alleati degli Usa, sono a loro volta alleati di Jabat Fateh al Shams, l’ultima reincarnazione di Al Nusra che era a sua volta l’incarnazione siriana di Al Qaeda, e non hanno alcuna intenzione di rompere il patto che un gruppo forte di 20 mila uomini e per nulla orientato a rispettare la tregua. D’altra parte è fresco il ricordo della precedente tregua, quella di febbraio, che fu usata dagli insorti anti-Assad per rinforzarsi e ripartire all’offensiva.

Dal punto di vista della situazione siriana, quindi, alle molte speranze si oppone un quadro che esclude qualunque eccesso di ottimismo.

Dal punto di vista internazionale, invece, il patto Usa-Russia, arrivato in coincidenza quasi perfetta con il quindicesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre che provocarono quasi 3 mila morti negli Usa, non può essere sottostimato. Al di là delle esigenze contingenti e tattiche (gli Usa non riescono a far buttar giù Assad ma la Russia non può pensare di sorreggere Assad in eterno), l’accordo ha un grande valore strategico.

Quindici anni fa, con la polvere delle Torri Gemelle ancora in aria, il presidente George W. Bush (20 settembre 2001) proclamò la “war on terror”, la guerra al terrore che doveva estirpare il terrorismo e domare i Paesi che lo sostenevano. Gran parte dei Paesi del mondo si unì a quella che voleva essere la crociata dei buoni e dei democratici contro l’estremismo islamico. Era l’epoca in cui dire “siamo tutti americani” sembrava avere un senso.

Da allora, e in nome di quella parola d’ordine, abbiamo accettato eventi drammatici. L’infinita guerra in Afghanistan. Abbiamo attaccato e di fatto occupato il Paese nel 2001 per cacciare i talebani e disperdere Al Qaeda, ma nel primo semestre del 2016 l’Afghanistan ha avuto il record di vittime civili dopo il 2009, con 1.601 persone uccise (tra le quali 388 bambini e 5007 donne). L’orrenda guerra in Iraq. Bush e Blair vollero a tutti i costi una guerra e ne inventarono le ragioni mentendo al mondo e ai propri elettori. Oggi, centinaia di migliaia di morti dopo, il Paese è più disgregato che mai e per una parte importante è ancora occupato dai miliziani dell’Isis, che l’hanno disseminato di fosse comuni.

In questi quindici anni, inoltre, non è stata risolta alcuna delle molte ambiguità che legano l’Occidente, gli Usa per primi, ai Paesi del Golfo Persico che sono noti per essere i primi finanziatori e sostenitori dell’estremismo islamico e del terrorismo che ne è emanazione. Possiamo davvero credere di farla finita coi terroristi se continuiamo a fare affari e scambiarci omaggi con i loro padroni?

Subito dopo l’11 settembre, una sola nazione venne esclusa, almeno in termini morali, dalla grande coalizione internazionale del bene: la Russia. Il Cremlino era contrario all’invasione dell’Iraq, e questo fu ritenuto un peccato grave dagli Usa e dai loro alleati. Ma il problema vero era un altro. Già allora la Russia chiedeva che fosse riconosciuto un fatto inoppugnabile: essere stato il primo Paese europeo a subire un jihad (guerra santa islamista) con la seconda guerra di Cecenia cominciata nel 1999, dove i denari del Golfo e i relativi miliziani (molti qaedisti reduci dall’Afghanistan) erano intervenuti in modo decisivo.

Gli Usa e i loro alleati negarono sempre quella realtà e continuarono a parlare di “indipendentisti” ceceni anche quando lo “stile” degli attentati (il massacro nelle scuole di Beslan nel 2004, ma poi anche lo stillicidio di attacchi e kamikaze nel Caucaso) parlavano chiaramente di terrorismo islamico. Così come parlava chiaro la proclamazione del califfato del Caucaso, arrivata anni prima della nascita dell’Isis e del suo califfato. Una negazione che aveva due ragioni. Le difficoltà della Russia, diventata più orgogliosa, aggressiva e nazionalista con Vladimir Putin, erano benvenute a chi propugnava l’esportazione delle democrazia e l’espansione politico-militare verso Est. Inoltre, allora come oggi, non si poteva in alcun modo riconoscere il ruolo che le petro-monarchie del Golfo Persico, alleate dell’Occidente e pur sempre definite “Paesi islamici moderati” svolgevano e svolgono nella diffusione dell’estremismo wahabita e del relativo estremismo violento.

Oggi possiamo dire che l’accordo siglato tra Kerry e Lavrov chiude la stagione post-11 settembre, con tutte i suoi errori e le sue ipocrisie. La “war on terror” è stata un clamoroso fallimento, visto che dal 2000 al 2016 i morti per atti di terrorismo, nel mondo, non sono calati ma, al contrario, cresciuti di nove volte. E l’idea che si potesse radunare una coalizione del bene per lottare contro il male è stata dispersa dalle tragedie generate in tutto il Medio Oriente dalla guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein.

Oggi gli Usa dell’impalpabile Obama sono costretti ad accettare realtà che quindici anni fa, nel tripudio neo-con, non avrebbero nemmeno considerato. E cioè, che la guerra al terrorismo non si fa con i “buoni”, con i Paesi amici e/o sottomessi, ma con chi ci sta. Nel caso, anche con la Russia del detestato Vladimir Putin. Che la strategia di “esportazione della democrazia”, varata subito dopo il crollo del Muro di Berlino, in certe regioni del mondo ha portato solo a far rimpiangere i dittatori, come avviene oggi in Iraq e in Siria e come è già avvenuto in Egitto e nello Yemen. Che sovvertire certi equilibrii senza sapere come crearne di nuovi spalanca le porte all’incubo.

Firmando l’accordo, insomma, Lavrov e Kerry hanno chiuso un’epoca. Quella che ora si apre non è meno complicata e pericolosa ma è certamente nuova. Speriamo che diventi presto anche migliore.

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