Caso Regeni e Ong, la resa senza condizioni della sinistra “senza se e senza ma”



di Fulvio Scaglione - Linkiesta

È un copione già molto visto ma le ultime settimane è stato riproposto come nuovo. La sinistra in fuga dalla politica si aggrappa a qualunque salvagente purché sia di quelli “senza se e senza ma”, cioè eviti di pensare, distinguere, agire e magari sporcarsi le mani. Le ultime ciambelle della serie sono le polemiche sulle Ong nel Mediterraneo e il cosiddetto “caso Regeni”.


Sul tema dei migranti e della gestione dei flussi abbiamo avuto il varo del “codice Minniti”, il gran rifiuto di Medici senza Frontiere, gli interventi della guardia costiera libica sostenuta dagli aiuti italiani. E infine il ritiro delle navi delle Ong, ora attraccate in Turchia, a Malta, in Tunisia, in Italia.
La sinistra-sinistra, senza se e senza ma, ha scelto Medici senza Frontiere. Prima contro un codice all’acqua di rose che è parso del tutto legittimo alle autorità Ue e a quelle internazionali e accettabile pure alla Conferenza episcopale italiana, che quanto ad accoglienza non può ricevere lezioni da nessuno. Poi contro il Governo italiano che collabora con quello libico e con la sua marina, accusata dalle Ong di sparare sulle navi dei soccorritori e di riportare i migranti verso quei gulag che sono i campi profughi della Libia.


La stampa amica ha raccolto la chiamata, senza negarsi nulla. Parla di navi di soccorso trasformate in missioni militari, quando il famoso codice prevede (anzi, prevedeva) l’imbarco temporaneo, e solo in casi eccezionali, di funzionari di polizia preposti alle indagini sul traffico di esseri umani. Misura che almeno metà delle Ong attive in mare aveva accettato senza traumi. E non esita ad alzare ancora i toni quando le navi delle Ong decidono di ritirarsi in porto, perché i libici sparano e operare in mare è diventato troppo pericoloso. Più pericoloso che lavorare in Sud Sudan, dove tre operatori umanitari sono stati uccisi in aprile? Che in Afghanistan, dove cinque operatori umanitari sono stati uccisi in gennaio? Che nella Repubblica centrafricana, dove sei operatori della Croce Rossa sono stati uccisi il 10 agosto?
Pare di sì, e comunque nessuno può imporre a nessuno di rischiare. Quindi vai con la retorica, fino a scrivere che le Ong sono “le uniche istituzioni che hanno fatto qualcosa di concreto per salvare vite in mare”, anche se i dati dimostrano che le nove navi delle Ong hanno il merito enorme di aver sottratto alle onde circa il 35% dei migranti in pericolo, ma che quasi tutti gli altri sono stati salvati dalle imbarcazioni delle forze armate italiane, il che fa dello Stato il più benemerito operatore umanitario attivo nel Mediterraneo.


Ma la realtà non riguarda più la sinistra. Quel che conta è trovare una via di fuga dalle angustie e dalle miserie della politica. È vero, verissimo, che la Libia non ha più uno Stato degno di tal nome, è un caos di poteri e contropoteri che si danno la caccia l’un l’altro spinti dai soldi e dalle mire di questo o quell’altro Paese. E sappiamo anche perché e come si è arrivati a questo punto. Però è una scoperta da poco. Piaccia o no (e a chi può piacere?), in Libia c’è un Governo, quello del premier Al-Farraj, debolissimo ma riconosciuto dall’intera comunità internazionale. E c’è un potere alternativo forte, quello del generale Al-Haftar, riconosciuto da nessuno ma appoggiato da Paesi come Egitto e Russia con i quali siamo in relazione. Che facciamo, come Italia, di fronte a tutto questo? Ci ritiriamo in porto, come le Ong? Diciamo che non giochiamo più, come i bambini? Mettiamo il broncio a questa Libia-Tortuga che però si trova appena oltre un braccio di mare e ha un’influenza decisiva sui flussi dei migranti che approdano sulle nostre coste?
Di nuovo: è vero, lo sappiamo, i migranti riportati in Libia finiscono male. Ma come si risolve questo problema, se non attraverso l’azione politica? Le Ong possono fare molto per l’emergenza. Ma ricostruire la Libia, o almeno darle un volto più umano, non è cosa loro. Che cosa vorremmo o potremmo fare di diverso? Istituzionalizzare l’emergenza, lasciare che tutti partano e i vivi arrivino?


Collaborare con i libici, come con la gran parte dei Governi del mondo, richiede una gran quantità di pelo sullo stomaco, impone compromessi, prevede fallimenti, sporca le mani e non solo quelle. Una pena. Ma ancor più penoso è lo spettacolo di una sinistra che, per non rovinarsi le unghie, rinuncia ad affrontare i problemi con gli strumenti più adeguati a risolverli (o almeno a ridurli) per rifugiarsi nell’ovatta dei buoni sentimenti e nel ricattino moralistico: ah, quindi, tu vuoi far morire i migranti! Salvo stupirsi, a fine giornata, se la gente non va più a votare e cresce il populismo.


Le stesse considerazioni si prestano per il “caso Regeni” e per le polemiche sul ritorno in servizio del nostro ambasciatore al Cairo. L’hanno capito anche i sassi che Al Sisi fa il pesce in barile e che nell’assassinio del ricercatore italiano sono coinvolti i suoi servizi di sicurezza. Schierarsi con la famiglia e la sua sete di giustizia è naturale, anzi doveroso. Ma è anche la cosa più facile. Perché poi resta una questione da nulla: come regoliamo i rapporti dell’Italia con l’Egitto? Ripristinandoli forse non sapremo la verità, mandandoli a monte non la sapremo di certo. Non abbiamo la potenza degli Usa, non possiamo decretare embarghi. E al resto del mondo del “caso Regeni” non importa nulla. Ce lo dimostrò, nelle settimane successive alla morte di Giulio, il buon François Hollande, socialista francese, che corse al soccorso di Al Sisi con prestiti e nuovi trattati commerciali, ansioso di prendere il posto dell’Italia nei rapporti bilaterali.


Nel caso dell’Egitto occorre purtroppo conciliare il dramma e lo sdegno della famiglia Regeni e di tutti coloro che hanno sete di giustizia con l’interesse dell’intero Paese. E questo non può non valutare l’influenza del regime di Al Sisi sulla situazione della Libia (l’Egitto è un grande sponsor del generale Al-Haftar), migranti compresi, e le relazioni economiche tra i due Paesi. A partire magari dal settore energetico e dalla scoperta in acque egiziane, due anni fa, da parte dell’Eni, del più grande giacimento di gas del mondo.

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