Reportage di Fulvio Scaglione da Damasco. "Così in Siria, piaccia o meno all'UE, la popolazione è tornata a vivere"



di Fulvio Scaglione* - Occhidellaguerra


Damasco, 30 giugno

Beirut-Damasco, meno di tre ore in auto. Damasco-Aleppo, cinque ore partendo all’alba e fermandosi per la colazione. Idem al ritorno con la merenda. Damasco-Homs in tre ore. A Maaloula in poco più di un’ora, Saidnaya in tre quarti d’ora.


La prima notizia sulla Siria è che si può fare. Ci si può muovere con relativa comodità e velocità. In un paio di mesi, da quando cioè gli ultimi capisaldi ribelli intorno a Damasco, da Yarmouk a Ghouta, sono caduti sotto il controllo del governo, è cambiato tutto. E il polso della nuova situazione lo dà, appunto, il traffico sulle strade.


Prima scarso di giorno, perché frenato dai lunghi giri che bisognava fare per aggirare le zone a rischio e dall’enorme frequenza dei check point militari e dei blocchi della polizia. E quasi inesistente di notte. Oggi già intenso e, quel che più conta, “popolato” di autobus e taxi collettivi e soprattutto di camion, che tendono a muoversi in convoglio ma ormai sono numerosissimi lungo la fondamentale direttrice Damasco-Aleppo.


È il segnale più chiaro ed evidente della voglia di rinascere che la Siria esprime in ogni piccola o grande manifestazione della vita sociale. A partire, per esempio, dalla voglia di commerciare e intraprendere.


Bab Touma, il quartiere a prevalenza cristiana, si è popolato in un attimo di nuovi caffè e ristoranti, aperti e frequentati a tutte le ore. Il risultato è che il quartiere, che confina con la grande moschea degli Omayyadi e con il suq di Al Hamidiyya, costruito verso la fine del Settecento sfruttando anche i resti di un tempio romano, è diventato il regno della “movida” damascena.


Il venerdì (giorno festivo per i musulmani) e il sabato (vigilia della festa cristiana) si riempie di giovani che sono, in virtù delle proporzioni tra le confessioni, soprattutto musulmani. Li porta lì l’atmosfera più distesa, quel pizzico in più di gioia di vivere, il gusto per suoni e sapori un poco diversi. E la cosa sembra funzionare. Anche le ragazze che chiacchierano per strada, una velata e l’altra no, o i ragazzi che si danno un tono fumando il narghilè nei caffè del quartiere cristiano, sono un barometro sociale da tenere d’occhio.


Forse è troppo presto ma si vorrebbe capire se e come i sette anni di questa guerra atroce e ancora non finita, condotta da un esercito di terroristi che comunque si ispirava (o diceva di ispirarsi) all’islam, abbiano segnato il rapporto tra la minoranza cristiana e la maggioranza musulmana della Siria. Ovviamente non è stata una guerra di religione. Ma un problema di radicalismo islamico evidentemente c’è stato, nel passato recente come in quello prossimo. E in molti casi anche un problema di radicalismo più o meno finto o opportunista che, alla chiamata del Califfato, ha gettato la maschera e si è sfogato contro i cristiani, come pure contro i musulmani moderati o leali al governo di Bashar al Assad.


Ho conosciuto Bashir, un tempo florido commerciante di scarpe a Yarmouk, il grande campo profughi palestinese alle porte di Damasco. Purtroppo per lui, Bashir era anche l’unico cristiano della città. Mai avuto un problema, tutto tranquillo. Ma poco dopo lo scoppio della rivolta, sui muri della sua casa sono cominciate ad apparire slogan islamisti e minacce di morte. Quando i terroristi si sono avvicinati, Bashir, la moglie e le tre figlie sono dovuti scappare con solo quello che riuscivano a portare con sé in automobile. “Tra immobili e merci”, dice lui ora, “avevo un valore di quattro milioni di dollari. Ora non ho più nulla. Sono tornato a Yarmouk, della mia casa e dei miei negozi restano solo macerie”.




Alla disgrazia economica si aggiunge, come dicevamo, un rovello: quello di sapere che fu uno dei suoi vicini di casa, musulmano appunto, ad additarlo a quelli dell’Isis come cristiano da puntare e spogliare. Bashir non sa quale dei vicini, ma arriverà a scoprirlo. E poi? C’è chi sostiene anche la tesi opposta. Aver combattuto un comune nemico, il terrorismo islamista, ed essere sopravvissuti renderà ancor più stretti i rapporti tra i siriani musulmani e i siriani cristiani. Vedremo. Intanto, le autorità religiose islamiche fanno ogni sforzo per far procedere la Siria su quest’ultima strada.


Ho partecipato a un incontro tra il muftì di Aleppo, Sheikh Mahmud Assam, e i vescovi delle diverse confessioni cristiane. “Dove ci siete voi cristiani”, ha detto a un certo punto il muftì, la seconda autorità religiosa islamica del Paese, “i rapporti tra le persone sono più dolci e la vita più tranquilla”. Difficile credere che fossero parole dettate solo dal senso dell’ospitalità.


Così, mentre l’esercito finisce di rimettere insieme i pezzi di Siria che gli islamisti hanno occupato e tenuto per sette anni, tanti altri attori cercano di ricomporre il puzzle della società siriana, per lunghi anni tenuto insieme da una miscela di centralismo politico, tolleranza etnico-religiosa e autosufficienza economica che ora si cerca di ricreare. Proprio questo sforzo, però, mette in luce le ferite profonde che il conflitto ha inferto al Paese.

Troppi muri di Damasco sono coperti dalle foto dei “martiri”, soldati e civili caduti sotto i colpi dell’Isis, di Al Nusra e delle altre milizie. I morti sono in gran parte giovani. Così come moltissimi, tra gli emigrati, sono stati i giovani in età da servizio militari, fuggiti all’estero per non rischiare la vita al fronte. I due fattori, combinati, hanno privato la Siria delle energie lavorative migliori. L’economia siriana, oggi, sente questa assenza ma sarà costretta ad appoggiarsi su donne ed anziani ancora per anni, fino a quando cioè la “generazione perduta” della Siria non sarà sostituita dai bambini e dai ragazzini di adesso, cresciuti negli anni delle bombe e dei missili.

Così come si sente, ovviamente, l’isolamento internazionale in cui la Siria è stata precipitata. Senza poter commerciare, esportare e importare, il Paese riesce a vivere ma la ricostruzione sarà enormemente più difficile. L’Unione europea ha di recente prolungato di un anno ed esteso in ampiezza le sanzioni economiche, indifferente al fatto che dette sanzioni non hanno alcun effetto politico, visto che non toccano la stabilità della presidenza o del governo, ma rendono la vita ancor più dura a una popolazione già stremata da una guerra orrenda. Popolazione che, Bruxelles se ne faccia una ragione, è in maggioranza schierata con Bashar al Assad. Soprattutto adesso. Una realtà che facciamo finta di non vedere ma che è lì, solida e non incline a cambiare nel prossimo futuro. Che vogliamo fare?

*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autore

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