Elezioni di midterm, 3 ragioni per cui Trump non perde oggi ma perderà sicuramente domani


di Fulvio Scaglione* - Linkiesta


Alla fine è andata proprio come doveva andare. Le elezioni Usa di medio termine hanno mantenuto, anzi accentuato, il controllo dei Repubblicani sul Senato rinnovato per un terzo, e restituito con larghezza ai Democratici quello sulla Camera, interamente rieletta. Donald Trump è ora “un’anatra zoppa”, un Presidente che dovrà confrontarsi con l’opposizione, anzi l’ostruzionismo di uno dei due rami del Parlamento, condizione che prima di lui era toccata a Barack Obama, Bill Clinton, George W. Bush e, più indietro, a Harry Truman.

In concreto, e molto in sintesi, Trump avrà ancora mano libera sulla politica estera e sulle nomine, la cui ratifica compete appunto al Senato, mentre troverà ostacoli altissimi nella politica interna, su cui maggiori sono le competenze della Camera.

Trump avrà ancora mano libera sulla politica estera e sulle nomine, la cui ratifica compete appunto al Senato, mentre troverà ostacoli altissimi nella politica interna, su cui maggiori sono le competenze della Camera

Si attendono anche notizie sul Russiagate. Robert Mueller, l’ex direttore dell’Fbi che fa da procuratore speciale in questa indagine, è rimasto silente nei due mesi prima del voto di medio termine, come da galateo politico, ma è probabile che a breve si rifaccia sentire.

Se qualcuno sente già profumo di impeachment, è meglio che si dia una calmata. È vero, la Camera può varare la procedura con la maggioranza semplice, e i democratici (che pure non sono tutti d’accordo, per paura di regalare a Trump l’aureola del perseguitato) ce l’hanno. Ma poi, per confermare la condanna del Presidente, occorrerebbero i due terzi del Senato e saremmo punto e a capo. Anche perché in questo voto il Partito repubblicano è diventato come mai prima il “partito di Trump”: suoi i temi che hanno dominato la campagna elettorale, suoi gli slogan, sue le polemiche che hanno permesso a certi candidati di spuntarla contro le previsioni.

Proprio questa, però, è una delle considerazioni che portano a concludere che questo voto è una sorta di licenziamento posticipato per Trump. Per tutta la campagna elettorale, The Donald ha fatto leva sul binomio “controllo dell’immigrazione-sicurezza” (tipico il clamore sulla marcia dei migranti dall’Honduras) mentre ha stranamente lasciato da parte l’economia, che gli sta dando grandi soddisfazioni, con la crescita continua dei posti di lavoro e dei salari e il calo della disoccupazione. Il tasso di occupazione tra le minoranze (ispanici, afroamericani, asiatici) è oggi a livelli da record. Puntare su una polemica dalle forti implicazioni razziali ha prodotto qualche risultato immediato ma è perdente in prospettiva. Negli Usa, come il censimento dimostra, il peso elettorale delle minoranze è in continua crescita. Già nel 2020 i “bianchi” saranno minoranza tra i Millennials, i ventenni, cosa che progressivamente avverrà anche nelle altri classi d’età.

Butta male per Trump, quindi, e per il Partito repubblicano che non ha avuto altra scelta che “trumpizzarsi” per uscire da una profondissima crisi di rappresentatività e che difficilmente, nel 2020, troverà un altro Trump al quale aggrapparsi

Seconda considerazione. I Democratici non hanno ancora un personaggio forte per le presidenziali del 2020, ma hanno schierato in questo voto una serie di candidati locali giovani e grintosi che hanno fatto la differenza. L’affluenza alle urne è stata altissima (114 milioni di voti contro gli 83 del 2014) e, soprattutto, sono tornati a votare i giovani, che avevano appoggiato Obama e mollato la Clinton. Basta guardare l’incremento dei votanti nella classe d’età tra i 18 e i 29 anni: più 2496% in North Dakota, più 808% in Wisconsin, più 663% in Tennessee, più 502% in New Jersey, più 465% in Texas e via via a scendere, ma sempre su percentuali a tre cifre. Quando i giovani vanno in massa a votare, per i Repubblicani è allarme rosso.

Terza considerazione, connessa alla precedente. Sempre grazie alle buone scelte in ambito locale, i democratici hanno recuperato molti governatorati tra i 36 che erano in ballo ieri. Questo significa che nel 2020 i democratici avranno più possibilità di esercitare il cosiddetto “gerrymandering”, ovvero l’arte di ridisegnare i collegi elettorali per favorire il proprio elettorato e penalizzare quello dell’avversario. Pratica comune negli Usa, ed esercitata con ottimi guadagni dai Repubblicani in Stati importanti come Michigan, North Carolina e soprattutto Ohio.

Butta male per Trump, quindi, e per il Partito repubblicano che non ha avuto altra scelta che “trumpizzarsi” per uscire da una profondissima crisi di rappresentatività e che difficilmente, nel 2020, troverà un altro Trump al quale aggrapparsi.


*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autore

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