Siamo sinceri, un po' tutti abbiamo acquistato o acquistiamo prodotti online, per una questione di comodità e spesso di convenienza economica. D'altronde il mercato globalizzato permette anche questo, e a detta degli esperti la colonna portante della new economy è proprio rappresentata dal commercio online.
Quello che però molti ignorano è che la straordinaria celerità delle consegne spesso, soprattutto quando riguarda le grosse multinazionali dell'e-commerce, cozza con i più elementari diritti dei lavoratori, arrivando a considerare l'uomo come un robot senza anima, senza bisogni e senza cervello.
Puntulamente anche quest'anno, come ogni anno di questo periodo, si torna a parlare del colosso statunitense Amazon e delle dubbie condizioni di lavoro in cui versano i suoi dipendenti delegati al magazzino, i cosidetti “pickers”.
La multinazionale statunitense fa registrare guadagni stratosferici in concomitanza con l'inaugurarsi delle spese natalizie che cominciano con il “Black Friday”; ossia l'ennesima tradizione d'oltreoceano, importata nel vecchio Continente a scopi commerciali, dove, il venerdì dopo il giorno del Ringraziamento, si possono trovare molti articoli a prezzo superscontato. Stavolta a finire sotto l'occhio del ciclone sono stati gli stabilimenti britannici, italiani e tedeschi.
Il giornalista inglese del Daily Mirror Alan Selby, dopo aver trascorso 5 settimane come operaio dell'azienda “sotto copertura” ha denunciato le condizioni disumane dei lavoratori all'interno del magazzino.
Il reporter ha dichiarato che molti operai “si sono addormentati in piedi” per l'enorme quantità di lavoro svolto, ha denunciato un orario di 55 ore settimanali ed enormi pressioni fatte dai manager dell'azienda sui propri dipendenti.
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