Base “militare” cinese a Gibuti: si pensa ad una rivoluzione colorata?


Una delle possibili risposte diversificate della Cina popolare al terrorismo di matrice islamica che l’ha colpita direttamente (esecuzione dell’ostaggio da parte dell’Isis e morte di tre dirigenti di una azienda statale nell’attentato in Mali) è quella di aumentare la propria presenza militare in aree/rotte commerciali strategiche e approfondire l’impegno in missioni internazionali come quelle contro la pirateria.

In questo quadro rientra l’accordo con Gibuti, Paese africano situato nel golfo di Aden all’ingresso del Mar Rossi e di fronte al martoriato Yemen, per la costruzione di strutture militari di supporto ad una flotta che in questi anni ha effettuato missioni di scorta con 21 flotte impegnando più di 60 navi. La notizia ha ovviamente destato l’attenzione della stampa di tutto il mondo, sebbene proprio Gibuti da anni ospiti una grande base militare Usa con 4.000 militari, perché indicativa della reale messa in opera delle nuove priorità di Pechino nella sua proiezione estera: la protezione dei propri interessi economici e della sicurezza dei propri cittadini all’estero.

E non può essere certo un caso che proprio ora, diversi quotidiani, puntino il dito accusatore verso il piccolo Stato africano (che, ripetiamo, da anni ospita basi militari Usa e francesi), il cui presidente Gulleh, al potere da 16 anni, è a capo di uno dei "regimi più repressivi" d'Africa colpevole di aver schiacciato ogni forza di opposizione e ogni forma di informazione indipendente. Che dite, dopo 16 anni di altrettanto silenzio, esportiamo un poco di democrazia?
Diego Angelo Bertozzi

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