Hong Kong: l’isolamento di Occupy Central


Un movimento ormai isolato e in via di esaurimento: la “Ombrella revolution” che ha interessato Hong Kong sembra ormai destinata al fallimento. A mancarle pare essere l’appoggio popolare, indispensabile per ingaggiare e portare alla vittoria un scontro aperto contro l’autorità costituita, in questo caso l’esecutivo di Hong Kong come il governo della Repubblica popolare cinese.

La narrazione di una popolazione, di una nuova generazione, che insorge compatta per la richiesta di democrazia - dopo aver per anni sopportato senza ansia da ribellione la pratica coloniale di Buckingham Palace, - sì è disgregata contro il muro di una realtà che mostra esattamente il contrario. Una realtà che dice, tra l’altro - e urge sempre ricordarlo - che per la prima volta nella loro storia i cinesi dell’ex colonia britannica eleggeranno con suffragio universale il Capo dell’esecutivo della regione autonoma.

I dati emersi da un recente sondaggio condotto dall’Università di Hong Kong sono impietosi: l’83% degli abitanti vuole la fine delle proteste condotte da Occupy Central, percentuale simile a coloro che chiedono al governo di sgomberare i siti di protesta ancora attivi. Poco più del 20% manifesta appoggio alla continuazione della protesta. Risultati simili sono giunti anche da un sondaggio condotto a inizio novembre dalla Chinese University's Centre for Communication and Public Opinion Survey: circa il 70% degli oltre 1.000 intervistati chiede il termine delle manifestazioni.
Numeri e indicazioni poco credibili, frutto forse di propaganda cinese (comunista, manco a dirlo) per screditare un movimento ancora in campo dopo ormai circa 9 settimane? A dare ragione a questi dati è stato tempo fa la pubblicazione sulla Cnn di un articolo di Robert Chow, giornalista e co-fondatore di Silent Majority for Hong Kong: “Vedete, mentre 70mila studenti e sostenitori del gruppo Occupy Central occupano ora le strade, 1 milione e mezzo di abitanti si è mobilitato per firmare con i propri nomi una petizione che chiede il ritorno alla pace e rifiuta il movimento Occupy Central”.
Era il settembre del 2013, poco più di un anno fa, quando il nuovo ambasciatore statunitense a Hong Kong Clifford Hart pubblicamente dichiarava alla Camera di Commercio americana che l’ordine del giorno del suo operato non era cambiato e neppure segreto: l’introduzione di un vero suffragio universale nell’ex colonia di Sua Maestà. Pare, insomma, che il primo tentativo di spallata sia andato maluccio nonostante la mobilitazione da crociata per la libertà, con tutti il seguito di bombardamenti mediatici. Ora - e non è certo un caso - i motori di quest’ultimi paiono assai silenti.

Ma nulla esclude che presto torneranno a rombare. L'ex governatore britannico Chris Patten ha invocato un embargo terapeutico come misura per convincere Pechino al rispetto dei diritti umani, mentre la relazione della U.S.-China Economic and Security Review Commission del Congresso, in un suo parere, ha accusato la Cina di andare contro i propri impegni internazionali e di utilizzare una crescente rescente presenza militare a Hong Kong per "intimidire gli attivisti pro-democrazia". Che si corra il rischio di vedere dispiegata una forza di repressione come quella vista a Ferguson nel Missouri, con intimidazioni a manifestanti e giornalisti?
Diego Angelo Bertozzi

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