3 domande ai tifosi del Recovery Fund e una risposta (definitiva) sull'Unione Europea


di Thomas Fazi

Secondo alcuni commentatori non sarebbe il caso di fare troppe distinzioni, nel Recovery Fund, tra trasferimenti a fondo perduto e prestiti, perché anche in questo secondo caso stiamo comunque parlando, di fatto, di un finanziamento "in deficit", che dunque dovrebbe essere benvenuto anche da una prospettiva "keynesiana". Se si pensa che la spesa in deficit ("a debito") sia la risposta giusta alla crisi – affermano costoro – perché lamentarsi se i fondi arrivano sotto forma di prestiti, che peraltro otterremmo a tassi di interessi più convenienti di quelli che attualmente paghiamo sui nostri titoli di Stato?

Secondo la stessa logica, dicono, non ha molto senso fare il bilancio tra fondi versati e fondi ricevuti nel calcolo del saldo netto dei trasferimenti a fondo perduto: se i soldi arrivano ora – si fa per dire –, ma devono essere rimborsati lungo un arco di tempo relativamente lungo, il paese ricevente dovrebbe comunque beneficiare del classico moltiplicatore keynesiano, indipendentemente dal saldo netto finale tra entrate e uscite.

Ora, c’è un fondo di verità in questa argomentazione: nelle condizioni date, indebitarci nei confronti della UE, da un punto di vista strettamente finanziario (e tralasciando dunque la questione delle famigerate condizionalità), è indubbiamente più vantaggioso rispetto all’indebitarci "sui mercati". La domanda che dovremmo porci, però, è la seguente: perché ci troviamo in questa situazione?

Perché sui nostri titoli di Stato a dieci anni paghiamo attualmente un tasso di interesse (1,5 per cento) che è poco meno del doppio rispetto a quello del periodo pre-pandemia?

Perché la BCE ha permesso ai tassi di salire in un momento di emergenza come questo, quando quello che dovrebbe fare una banca centrale in tempo di crisi – e che infatti hanno fatto e stanno facendo tutte le altre banche centrali – è l’opposto: far scendere i tassi di interesse per facilitare le necessità di finanziamento dei governi?

Perché, in definitiva, siamo messi nella condizione di dover scegliere tra indebitarci "sui mercati" a tassi relativamente onerosi e indebitarci nei confronti della UE a tassi più convenienti?

ll presupposto da cui partire è che non c’è nulla di "naturale" nel tasso di interesse che attualmente paghiamo sui nostri titoli di Stato. I tassi di interesse, in ultima analisi, vengono decisi dalla banca centrale: da un punto di vista strettamente tecnico, la BCE, se lo volesse, potrebbe tranquillamente portare i tassi di interesse sui nostri titoli di Stato a zero.

Non ci interessa discutere in questa sede se non la faccia per ragioni "statutarie" o politiche. Il punto è che se oggi paghiamo sui nostri titoli di Stato un tasso di interesse tale da rendere "attrattiva" la prospettiva di indebitarci nei confronti della UE, è unicamente una conseguenza dell’appartenenza alla stessa architettura monetaria della UE.

Se disponessimo di una nostra banca centrale, infatti, nulla ci impedirebbe di indebitarci a un tasso di interesse nullo o anche negativo – o di vendere i titoli direttamente alla nostra banca centrale –, come fanno attualmente gran parte dei paesi avanzati, incluso il Giappone, nonostante il suo rapporto debito/PIL del 250 per cento, o la Gran Bretagna, nonostante il "terremoto" della Brexit.
In altre parole, la UE ci sta offrendo la soluzione ad un problema creato da essa stessa: l’assenza di una banca centrale degna di questo nome. Ma questo non è un errore di percorso, quanto piuttosto un aspetto costitutivo dell’eurozona. Se la BCE fosse una "normale" banca centrale, infatti, sarebbe molto più difficile costringere i governi a "rigare dritto", a fare austerità e – come in questo caso – a cedere ulteriore sovranità alla UE.

Il Recovery Fund è, in ultima analisi, un classico esempio di quella dottrina dei "piccoli passi" o del "piano inclinato" che è stata utilizzata fin dagli albori della UE per promuovere surrettiziamente il processo di integrazione economica. I "padri fondatori" dell’Europa, infatti, consapevoli della mancanza delle condizioni per procedere esplicitamente verso la costruzione di un super-Stato europeo, teorizzarono la necessità di procedere per gradi, attraverso progressivi trasferimenti di competenze e di sovranità in ambiti specifici e circoscritti, in maniera tale da non destare allarme nelle popolazioni degli Stati membri; questo, sempre secondo la dottrina dei "piccoli passi", avrebbe poi determinato le condizioni – il "piano inclinato", appunto – per rendere inevitabili (o apparentemente tali), grazie anche a "crisi" piu? o meno orchestrate a tavolino, ulteriori trasferimenti di sovranità, facendo "scivolare" inesorabilmente i singoli paesi europei verso una "unione sempre più profonda", fino al definitivo svuotamento delle sovranità nazionali. In breve: prima si crea il problema e poi si presenta un'ulteriore cessione di sovranità come l'unica soluzione possibile.

È questa la vera partita che si gioca intorno al Recovery Fund: la svendita di quel brandello di sovranità
democratica che ci è rimasta – l’autonomia, almeno dal punto di vista formale, sulle politiche di bilancio e di investimento – e il rafforzamento del carattere oligarchico della UE, attraverso l’accentramento di ulteriore potere nelle mani di istituzioni anti-democratiche quali la Commissione europea, in cambio di due spicci, che in condizioni di sovranità monetaria potremmo tranquillamente reperire autonomamente.

Il fatto che la nostra classe dirigente sia riuscita a convincere milioni di italiani che l’Italia – nonostante tutto, ancora una delle economie più sviluppate al mondo – sarebbe antropologicamente incapace di perseguire la seconda strada, cioè di gestire autonomamente la propria economia, è indubbiamente una delle conseguenze più drammatiche di vent’anni di "vincolo esterno": l’averci ridotto «in quello "stato di minorità" che è proprio di chi sente la necessità di affidare ad altri le decisioni circa le proprie priorità e il proprio futuro».

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