Progetto Metaeducazione e ABC. Giovani, Geopolitica e la questione palestinese

Proponiamo 3 articoli sulla questione palestinese scritti dai ragazzi Del Liceo di Scienze Umane Vilfredo Pareto di Milano nati nell'ambito del progetto Scuola giovani e Geopolitica.

Ringraziamo come Redazione de LantiDiplomatico per averci concesso l'onore di partecipare a queste giornate di vera formazione con i giovani, la promotrice di questo progetto Cristina Mirra, che spiega: "Il progetto CONOSCERE PER FARE LA PACE nell'ambito del programma "Una Stanza Tutta per Noi" di Metaeducazione e ABC nasce dalla considerazione che il clima di insicurezza e paura che gli avvenimenti internazionali generano nella società provoca effetti anche sui giovani alunni delle scuole superiori e delle università. Ciò crea l’esigenza di offrire loro un contatto con questa realtà e che offra stimoli per dare un senso allo studio e una conoscenza che li avvicini e faccia comprendere loro l'attualità. Il progetto vuole contribuire a dare degli strumenti di approfondimento, di ricerca che li possano mettere nelle condizioni di affrontare le criticità e le opportunità di un mondo in continua evoluzione promuovendo una cultura di pace basata sulla conoscenza e consapevolezza. Obiettivo è creare anche una rete internazionale di scuole, di studenti ed insegnanti, che possano riflettere e confrontarsi su tematiche di natura geopolitica e che magari anche possano sentirsi coinvolte o dare vita ad iniziative comuni. Vorremo che questo fosse uno dei tanti luoghi nei quali ci si informi e si diano informazioni basate su dati di fatto e nel quale i ragazzi possano sentirsi parte decisiva di questo mondo sempre più in rapido cambiamento."

Indirizzo web del progetto: https://conoscereperfarelapace.wordpress.com/

“Popoli a (non) confronto”

di Andrea Lara Corbetta V E

Con la creazione dello Stato di Israele nel 1948, il popolo Palestinese è stato vittima di una violenta politica di colonialismo. Israele arrivò infatti a possedere il 55% della Palestina, mentre sino ad allora ne aveva detenuto il 7%. L’obiettivo dei “colonizzatori” consisteva nel rendere il territorio la loro nuova patria. Tuttora, tramite il “trasferimento silenzioso”, vengono demolite case con all’interno intere famiglie, vengono lanciati missili su scuole e ospedali. Israele è infatti nota per la produzione e l’esportazione di attrezzature militari contrassegnate come testate e collaudate in battaglia. Il sionismo, così come il nazismo, si fonda sui conflitti e nega ogni negoziato di pace, considerato una minaccia.

Lo sterminio palestinese non trova alcun freno, arrivando, secondo gli storici, a circa 800 mila vittime: un numero troppo grande per essere ignorato. Sorge spontaneo domandarsi cosa abbia spinto Israele a tali azioni. È senza dubbio fondamentale considerare le difficoltà che sorgono dalla convivenza tra popoli con diverse culture e religioni.

Il sociologo Taguieff descrive il “razzismo differenzialista” come la tendenza, nei confronti di comunità immigrate, di accentuare le differenze culturali, escludendo così ogni forma di dialogo. Da ciò ne deriva la convinzione che la cultura definisca l’identità dei soggetti e per questo debba essere preservata e non possa essere contaminata con altre; lo “straniero” viene dunque visto come qualcuno da cui stare lontano.

L’antropologo Aime spiega in realtà come l’incontro non avvenga tra culture, bensì tra persone, le quali non possono essere circoscritte ad un’unica dimensione; esse non sono definite solo dalle tradizioni passate, ma anche dai propri pensieri e aspirazioni. Ciò non è però avvenuto tra il popolo d’Israele e Palestinese, i quali non hanno avuto alcuno scambio né dialogo, e si sono a vicenda considerati come portatori di valori in netto contrasto con i propri.

È opportuno prendere in considerazione ulteriori aspetti, fondamentali nelle dinamiche culturali. Gli stereotipi, ad esempio, sono etichette rigide e stabili, prodotte da un gruppo nei confronti di un altro; non sono fondate sulla valutazione personale dei singoli casi, perciò rappresentano un ostacolo verso la reale conoscenza del gruppo. È dunque fondamentale mettere in disparte tali categorizzazioni.

Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, ne ha parlato in una conferenza online del 2 gennaio. “Costruire la pace nel nostro cuore”, ha spiegato, “vuol dire costruire relazioni di pace serene nelle nostre famiglie e nelle nostre comunità molto spesso litigiose. Vuole dire costruire relazioni di pace libere da pregiudizi e stereotipi quali ‘i palestinesi sono terroristi, gli israeliani sono tutti quelli dell’occupazione’. Bisogna uscire dagli stereotipi e vivere con libertà le relazioni”. È necessario concepire la diversità come punto di partenza per giungere al confronto e alla crescita comune. L’obiettivo appare irraggiungibile, ma può essere realizzato poco alla volta tramite il dialogo e la ricerca di valori comuni.

Gli stereotipi non sono però l’unico ostacolo verso la pace. Come già anticipato, l’uomo ha una tendenza a distinguere il proprio gruppo di appartenenza, detto “ingroup”, da quelli che non lo sono, chiamati “outgroup”. Tale fenomeno, analizzato tramite la “Social Identity Theory”, porta l’uomo a considerare esclusivamente positivi i comportamenti del proprio gruppo, e negativi quelli altrui. Inoltre, la tendenza al continuo paragone tra l’ingroup e l’outgroup, favoriscono la nascita di conflitti causati dall’affermazione della propria personalità. La “Social Identity Theory” spiega infatti come l’uomo amplifichi le somiglianze degli individui del proprio ingroup, e le differenze con gli outgroup. Inoltre, identificandosi con il proprio gruppo, l’individuo tenta ossessivamente di affermare la propria superiorità nei confronti degli “stranieri”.

Tali comportamenti trovano un riscontro tra ciò che avviene tra la popolazione Israeliana e Palestinese. Dal 1948 Israele ha tentato di imporre la propria supremazia e superiorità nei confronti di un popolo profondamente diverso dal proprio; ogni rifiuto di dialogo ha portato a guerre, massacri e sofferenze. La politica razzista Israeliana non si è fermata in Palestina, si è bensì diffusa in molte nazioni del mondo. Essa ha alimentato la discriminazione nei confronti dei musulmani, come ne è testimone l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il quale ha più volte affermato “l’Islam ci odia”.

Il conflitto, e ciò che esso comporta, non è una questione che riguarda unicamente coloro che sono direttamente coinvolti; la cecità morale non ha mai risolto alcun’ostilità: occorre superarla.

Questione palestinese: Guerra e Arte

di Marta Pellegrini V E

14 febbraio: giorno di San Valentino, ma anche giorno in cui è venuto a mancare all'età di 76 anni Mourid Barghouti, poeta palestinese la cui fama è giunta sino in Gran Bretagna.

La sua opera autobiografica “ Ho visto Ramallah” è incentrata completamente sulla situazione palestinese e sulla condizione di esule del poeta stesso. In questa raccolta di poesie trova spazio anche la celebrazione della scrittrice egiziana e moglie di Mourid, Radwa Ashour, morta nel 2014. A lei, infatti viene dedicata una delle poesie d’amore più suggestive della letteratura palestinese, pertinente in modo quasi ironico con la data di questa giornata di lutto. Intitolata “Tu ed io”, la poesia relaziona il rapporto dei due amanti con la contingenza conflittuale scaturita dall’occupazione della Palestina e la condizione di esilio vissuta dall’autore. Di seguito un passo tratto dalle prime strofe:

You’re beautiful like a liberated homeland (Tu sei bella come una patria liberata)

I’m exhausted like a colonized one.(Io sono esausto come una patria colonizzata)

You’re sad as a forsaken person, fighting on (Tu sei triste come una persona abbandonata, che sta lottando)

I’m agitated as a war near at hand[…] (Io sono agitato come una guerra che sta arrivando)

Con la morte dello scrittore, l’attività artistica della popolazione palestinese non si esaurisce, anzi, sempre più persone sentono la necessità di esprime in forma artistico-letteraria una denuncia nei confronti dell’occupazione israeliana scaturita dal conflitto con la Palestina.

È il caso della diciannovenne Malak Mattar, attualmente studentessa a Istanbul, ma soprattutto artista cresciuta nella Striscia di Gaza e la cui fama ha fatto il giro del mondo a partire dal 2014, quando, in seguito alla campagna militare ‘Operazione Margine di Protezione’ iniziata l’8 luglio di quell’anno da parte delle forze militari israeliane, la ragazza ha iniziato a produrre schizzi con gli acquarelli offerti dalla sua scuola. Costretta all’internamento in casa propria per la sua incolumità, ha sentito un bisogno estremo di incanalare tutta la sua energia negativa nella pittura, tanto che nei primi due anni ha prodotto più di duecento opere. Nei suoi dipinti è palpabile la rivendicazione dei diritti dei rifugiati nelle sue stesse condizioni e soprattutto il desiderio di pace sperato per la sua popolazione.

Ciò che, però, è caratteristico dei suoi quadri è l’assenza di scene crude e sanguinose tipiche di tali conflitti, a favore di contesti speranzosi, molto spesso simboleggiati dalla presenza di colombe. (immagini 4 e 6) Con il tempo, la pittrice ha voluto mettere in risalto la condizione vissuta dalle donne palestinesi, private dei loro diritti e uccise in nome dell’onore, facendo della figura femminile il principale soggetto delle sue opere, da considerarsi veri e propri manifesti femministi. (immagine 1) Tutt'ora due dei suoi dipinti più celebri ‘tre donne’ e ‘ donna con uccello’ (immagini 2 e 3) sono esposti alla mostra palestinese ‘Art of Palestinian women’.

Prima di poter esporre a una mostra internazionale, però, la pittrice si è servita soprattutto di social media come Facebook e Instagram, sui cui account, attivi tutt’ora, postava e vendeva le sue creazioni, in quanto era impossibilitata a lasciare il proprio paese a causa dell’occupazione. Dopo due anni dall’inizio della sua produzione artistica, alcuni suoi quadri hanno suscitato l’interesse delle gallerie palestinesi fino ad arrivare, al giorno d’oggi, ad essere esposti in gallerie internazionali in Inghilterra, Francia, Costa Rica e anche Stati Uniti.

Quello che all’inizio era un gesto terapeutico, si è trasformato, così, in una vera e propria passione e professione, tanto che la modalità pittorica della ragazza viene spesso paragonata alla pittura alta della corrente dadaista di Picasso. Anche quest’ultimo, oltre che presentare quadri le cui costruzioni geometriche semi-astratte sono quelle da cui prende ispirazione Mattar stessa, utilizzò la pittura come denuncia nei confronti della guerra.

Pur vivendo lontana da ormai tre anni dalla sua terra, Mattar spera in un ritorno nella sua città d’origine in un periodo di pace, ma fino a quel momento “porta la Palestina con sé" traducendola nelle sue creazioni, tanto che alla morte del poeta connazionale ha deciso di realizzare un tributo alla sua opera di sensibilizzazione nei confronti della questione palestinese (immagine 5).

Come loro, molti artisti che vivono ormai da anni in una società assediata, tendono ad incanalare nell’arte il loro grido necessario di denuncia e speranza nei confronti dell’oppressione e repressione di diritti umani, facendo della propria arte un vero e proprio manifesto politico.

Palestina, un paese in lockdown da anni

di Giorgia Grillo V F

“Quest’anno il mondo ha provato cosa volesse dire vivere in lockdown, senza poter essere liberi di uscire e di muoversi per il Covid-19, in Palestina viviamo allo stesso modo da anni”.

Una frase forte, che risuona nelle nostre teste come un insegnamento di vita: è questo quanto afferma Samira, ragazza palestinese che, come tanti altri giovani del suo territorio, sperimenta la difficoltà di non poter vivere liberamente, di non poter uscire o andare a scuola ormai da troppo tempo.

Da ormai più di dieci anni nella Striscia di Gaza le persone vivono rinchiuse, da quando, nel lontano 2006, il governo dittatoriale di Hamas ha preso il controllo del territorio, provocando ulteriori scontri tra le popolazioni e tra coloro che aspiravano al potere.Quello palestinese, o per meglio dire quello israelo-palestinese, è un conflitto che ha origini molto antiche, ma le cui conseguenze sono più vive che mai. Un conflitto lungo e logorante, uno scontro di milizie, al quale ancora non si è riusciti a mettere una fine. E come sempre, i civili ne pagano le conseguenze.

Quindici anni dopo, a pagare ancora le spese degli incessanti conflitti di chi brama il potere sono sempre i palestinesi, vittime non solo di bombe e mitragliatrici ma anche, e soprattutto, delle restrizioni messe in atto.

Carestie, mancanza di lavoro, carenza di energia, acqua ed elettricità, questioni di sicurezza ed emergenze sanitarie: una lista che potrebbe continuare a lungo ma che significa una sola ed unica cosa ovvero che la popolazione non è al sicuro. Le lotte per il potere si trasformano dunque in lotte per il pane, per la sopravvivenza, sempre ed unicamente a spese dei civili.

Laith Abu Zayed attivista di Amnesty International riporta la storia di un giovane palestinese che – vivendo sotto l’occupazione israeliana – non ha potuto accompagnare la madre in ospedale a soli quindici minuti di distanza da casa sua perché trovandosi a Gerusalemme est doveva oltrepassare il “confine” palestinese.

Le limitazioni in Palestina però non riguardano solo i checkpoint e il coprifuoco, come racconta padre Da Silva, parroco di una unica comunità cristiana – con 138 cristiani – nella Striscia di Gaza. Il popolo palestinese vede razionato tutto, ne è un esempio l’elettricità: da 8 ore giornaliere, oggi i civili possono usufruire questo bene primario solamente due ore e mezza al giorno, così come per l’acqua a cui hanno accesso solo alcuni giorni della settimana.

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