LA VILTÀ LIBERALE E IL PARADOSSO DI ISRAELE

di Marina Calculli - La Rivista Il Mulino14 MAGGIO 2021


Spesso Israele e i suoi (molti) sostenitori internazionali si lamentano del fatto che la discussione sulla violenza israeliana abbia un’eccezionale rilevanza in seno alle Nazioni unite e in altri fora multilaterali. Ma quello che rappresenta davvero un’eccezione nella società internazionale contemporanea è piuttosto la neutralizzazione e la criminalizzazione sistematica di ogni tentativo di richiamare il governo di Israele alle sue responsabilità giuridiche internazionali. In altri termini, a essere eccezionali non sono tanto i crimini di Israele, che hanno purtroppo paralleli nel passato e nel presente, quanto la capacità di Israele di commettere crimini con un’esclusiva garanzia di impunità. La certezza del veto statunitense al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite su qualsiasi risoluzione critica verso Israele è solo la punta dell’iceberg di una delle più complesse forme di ipocrisia del cosiddetto «ordine liberale internazionale».

Si pensi soltanto al susseguirsi degli eventi che negli ultimi giorni hanno riportato Israele e Palestina al centro dell’attenzione globale. Il racconto della stampa liberale si è concentrato sulla presunta «riapertura del conflitto israeliano-palestinese» i cui imputati principali sono i razzi di Hamas lanciati da Gaza. L’amministrazione Biden, in linea con una lunga tradizione statunitense, è corsa a sostenere il «diritto di Israele di difendersi». Ma ci sono un problema fattuale e un problema giuridico in questa narrazione.

A voler guardare i fatti con onestà intellettuale, non c’è alcuna «riapertura del conflitto», né alcuna «nuova» violenza. I razzi di Hamas, sono semmai una sporadica risposta alla sistematica, quotidiana violenza dell’occupazione coloniale israeliana della Palestina. Compresa quella avvenuta negli ultimi giorni nel quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme e alla Spianata delle Moschee, dove l’esercito israeliano ha fatto irruzione all’interno della moschea Al Aqsa sparando proiettili di gomma e picchiando i fedeli durante la preghiera.

In sostanza, la centralità del «conflitto tra Israele e Hamas» nella narrazione dalla stampa mainstream ha l’obiettivo di elidere la violenza dell’esercito israeliano sui civili a Gerusalemme, oltre che l’ennesimo bombardamento su Gaza, dal contesto storico in cui questi eventi si collocano: quello della colonizzazione israeliana della Palestina che ha come obiettivo ultimo la sostituzione etnica del popolo palestinese con il popolo ebraico, eliminando fisicamente ed espellendo i palestinesi dalla loro terra. Questo progetto ha raggiunto soltanto un nuovo picco con l’ordine di «sfratto» (di fatto un’espulsione forzata) che la Corte suprema israeliana ha dato a sei famiglie palestinesi residenti a Sheikh Jarrah (Gerusalemme Est) all’inizio di maggio 2021 – descritto da diversi ministri israeliani come il risultato di una «disputa sulla proprietà privata». Il tentativo di mascherare un progetto etno-nazionalista con una patina liberaleggiante (evocando la sacralità della «proprietà privata») è tuttavia debole: la legge in questione dà diritto agli ebrei di reclamare proprietà possedute prima del 1948, ma non accorda lo stesso diritto ai palestinesi. Anche perché, se così fosse, alla luce delle confische delle proprietà palestinesi dal 1948 a oggi, ai palestinesi dovrebbe essere restituita buona parte del territorio che pure la comunità internazionale riconosce come loro, ma che è sotto occupazione militare israeliana da decenni. Questa legge rappresenta inoltre solo uno dei tanti tasselli dell’ordinamento giuridico israeliano che di fatto già rendono Israele uno Stato dell’apartheid, come Human Rights Watch ha documentato nel 2021.

C’è poi un problema giuridico relativo alle modalità attraverso cui si traduce puntualmente il presunto esercizio di Israele alla «difesa» del suo territorio. I bombardamenti su Gaza hanno provocato in tre giorni già 113 vittime civili, tra cui molti bambini – un bilancio destinato a salire – mentre secondo alcune fonti Israele sarebbe in procinto di lanciare un’offensiva di terra, mantenendo il confine bloccato per gli abitanti di Gaza: questo non è solo un massacro annunciato, ma un crimine di guerra. Ancora una volta negli ultimi giorni, Israele ha colpito palazzine e aree residenziali a Gaza, affermando esplicitamente di volerne colpire e abbattere ancora. La deliberata vittimizzazione dei civili è un’aberrazione per il diritto umanitario internazionale. Eppure Israele ha il lusso di annunciare i suoi crimini persino prima di commetterli. Nessuna condanna dei bombardamenti su Gaza è giunta finora da alcun governo occidentale, dando de facto a Israele esplicita legittimazione a continuare ad agire impunemente.

È in questo contesto che si collocano i canti israeliani di «morte agli arabi» che, sebbene non nuovi, hanno raggiunto una portata senza precedenti nelle ultime settimane. Così come le ronde condotte dagli israeliani per fare irruziona violenta nelle case dei palestinesi, o marchiare le case dei palestinesi in modo da identificare e colpire più facilmente i suoi abitanti. Tutto ciò ricorda quei traumi storici che proprio il cosiddetto «ordine liberale internazionale», creato dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si è proposto di arginare per sempre dall’orizzonte dell’umanità.

La restituzione del contesto normativo internazionale è importante, perché è su di essa che dovremmo fondare il giudizio morale collettivo sul comportamento degli Stati, soprattutto quando utilizzano la violenza. Questo vale soprattutto per i sostenitori di un ordine «governato dalle norme», che il nuovo presidente americano Biden si è detto deciso a ripristinare e proteggere dopo l’apparente deviazione del mandato di Donald Trump. Come si concilia tutto questo con il sempre più esplicito proposito di sostituzione etnica che è al centro della mentalità dello Stato di Israele? In nessun modo, se non attraverso la sua sanitizzazione e il suo oscuramento.

Se nelle sue Note sul nazionalismo nel 1945 George Orwell notava come «il nazionalista non solo non disapprova le atrocità commesse dalla sua parte, ma ha un’incredibile capacità di non venirne neppure a conoscenza», nella società internazionale post-1945 potremmo dire che l’impunità del progetto etno-nazionalista israeliano si fondi piuttosto sulla capacità del resto del mondo di rifiutare di riconoscerlo come tale, in modo da congelare i dilemmi morali che da esso inevitabilmente derivano. Come Israele possa continuare a essere considerato un pilastro e non un’aberrazione di quest’ordine internazionale rappresenta la più grande impresa di equilibrismo della politica contemporanea.

Il paradosso è che questa narrazione si fonda non tanto sulla convinzione di politici, giornalisti e intellettuali (spesso disposti in privato a condividere e accettare narrazioni più equilibrate), ma piuttosto sulla banalità della viltà liberale, sorretta da un clima di intimidazione istituzionale che tende a mettere a tacere e criminalizzare ogni critica verso Israele come «antisemita». Così, incastrati nella viltà di non riuscire a chiamare la violenza coloniale di Israele con il suo nome, siamo costretti a criminalizzare le sue vittime.

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