Lidia Undiemi - Bnl e il ricatto occupazionale: 800 lavoratori a rischio esternalizzazione

di Lidia Undiemi - Fatto Quotidiano

Fioccano presidi e scioperi di lavoratori e sindacati contro l’intento della Banca Nazionale del Lavoro di attuare una mega esternalizzazione di centinaia di dipendenti, mediante la cessione dei rami Back Office e Information Technology. Il trasferimento dovrebbe avvenire in favore di una società esterna al gruppo bancario, e dovrebbe coinvolgere circa 800 dipendenti.

Il perché al solo sentir parlare di esternalizzazioni i lavoratori provino un gelido brivido sulla schiena ce lo raccontano tutti i giorni le “vittime” dei cambi di appalto, costretti a subire nell’arco di breve tempo una contrattazione dietro l’altra al ribasso dello stipendio e dei diritti, se non addirittura il licenziamento. Un fenomeno di ricatto occupazionale che da dipendenti della grande azienda o della grande banca sarebbe impossibile.

L’evoluzione tecnologica ha accelerato esponenzialmente tale fenomeno, poiché le imprese più evolute che ne fanno uso, tra cui appunto le banche, hanno creato un sistema di organizzazione del lavoro basato sul quasi pressoché totale trasferimento del know how nei sistemi applicativi che processano le attività, tale per cui i lavoratori che si occupano di amministrazione e contabilità, ma non solo, sono chiamati a compiere per lo più attività di data entry (back office), con la inevitabile conseguenza che il lavoro da svolgere richiede sempre meno conoscenze.

In tal modo, i lavoratori sono agevolmente interscambiabili e sempre più valutabili non per le competenze possedute, bensì in base al tempo impiegato per svolgere un certo numero di pratiche. In effetti, deve essere ancora ben compreso cos’è che realmente cederà la Bnl, ad esempio dell’Information Technology, e soprattutto a chi, perché un conto è trasferire soltanto i lavoratori, un altro invece è cedere realmente le attività dentro cui questi sono inglobati, compresa l’infrastruttura tecnologica.

Nel primo caso, il rischio che si tratti di espulsione di personale è molto alto, nel senso che se la grande impresa trattiene di fatto attività e strumenti significa che – essendo il lavoro, ovvero gli stipendi, l’unico valore economico in futuro trattabile al ribasso (d’altronde perché cedere solo dipendenti?) – con l’esternalizzazione diviene gioco facile. Stesso ragionamento va fatto quando la cessione delle attività prevede uno spacchettamento, ossia quando ad esempio i lavoratori vengono ceduti a una società neocostituita (cosiddetta newco), e contemporaneamente elementi essenziali del ramo di attività esternalizzato vengono canalizzati in altre società, seppur collegate alla newco.

La questione è molto semplice, la newco è l’unica responsabile del destino dei lavoratori, quindi se una parte rilevante dei mezzi di produzione viene dirottata in una o altre società, viene da pensare che i problemi occupazionali arriveranno molto presto con uno scenario di questo tipo: la newco entra in crisi o chiude i battenti perché l’azienda che ha ceduto i lavoratori o negli anni successivi contratta al ribasso il corrispettivo dell’appalto, tale per cui l’appaltatrice è costretta a dichiarare esuberi, oppure l’appalto viene trasferito ad altre società (dove possibilmente i lavoratori costano meno), tale per cui se la newco non ha sviluppato altri business è costretta a chiudere, mentre se ha acquisito altre commesse nello spietato mondo dell’outsourcing dovrà probabilmente battere cassa con riduzioni di stipendio.

In sede di trattativa i sindacati devono valutare tali scenari ed evitare in tutti i modi che si pongano le premesse affinché possano concretizzarsi, fermo restando che le cessioni di lavoratori ex art. 2112 c.c. non necessitano del benestare sindacale. Ecco perché in molti casi noti alla stampa, i lavoratori sono poi costretti a rivolgersi al giudice del lavoro per tentare di ritornare alle dipendenze del cedente.

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