La spada di Bolivar nella Colombia di Petro e Marquez

08 Agosto 2022 15:33 Geraldina Colotti

Con la statura politica che lo caratterizza e che ha dimostrato in quasi un decennio alla guida del paese, il presidente venezuelano, Nicolás Maduro, si è congratulato con il suo omologo Gustavo Petro, che il 7 agosto ha prestato giuramento come nuovo capo di Stato della Colombia, insieme alla sua vice Francia Marquez, per il periodo 2022-2026. “Dobbiamo approfittare di questa seconda opportunità per il bene, la pace e la stabilità di Colombia e Venezuela”, ha detto Maduro riprendendo il discorso di Petro, iniziato e concluso con il riferimento alla frase di Garcia Marquez, nel romanzo Cent’anni di solitudine: “Tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra”. Invece, ha promesso Petro, “questa seconda opportunità si apre oggi. È il momento del cambio. Il nostro futuro non sta scritto. Possiamo scriverlo insieme in pace e nell’unità”. Quindi, ha detto che nessun paese dev’essere aggredito, e si è espresso a favore di una vera integrazione latinoamericana, basata sulla solidarietà e su pari condizioni.

Una promessa su cui incombe tutto il peso dell’oligarchia, che ha chiuso gli spazi di agibilità politica per l’opposizione fin dal 9 aprile del 1948, con l’assassinio del leader liberale Eliecer Gaitan. Da allora, la violenza è diventata strutturale in Colombia, permeata e rinnovata dalla presa del grande capitale internazionale che ha strutturato la Colombia come il gendarme degli Usa nel continente, al servizio del complesso militare-industriale. Sia Petro, che viene dalla guerriglia e si è sempre speso a favore di una soluzione pacifica al conflitto, che il presidente del Senato, Roy Barrera, che ha negoziato con la guerriglia a Cuba per conto del governo Santos, hanno affrontato il tema nei loro discorsi inaugurali. Entrambi hanno messo in evidenza la necessità di rimuovere le cause del conflitto, che dura dagli anni Sessanta del secolo scorso, a partire dalla riforma agraria, sempre disattesa, e dal grande business sulla “sicurezza” modello Usa, che ha come leva la cosiddetta “lotta alla droga”. Una politica fallimentare, ha detto senza mezzi termini Petro, che ha messo al 1° posto di un programma in 10 punti, la realizzazione degli Accordi dell’Avana. E al 6°, ha proposto un’altra visione della “sicurezza”, basata sulla giustizia sociale e non sulla repressione.

Il veto di Ivan Duque, che ha voluto lasciare il segno scegliendo chi invitare e chi escludere (Venezuela, Nicaragua e Cuba), com’era nelle sue prerogative fino all’ultimo giorno si esercizio della presidenza, sono però una minaccia incombente. Ricordano quegli aerei militari che si sono levati in volo quando le Farc-ep hanno pronunciato il loro discorso, durante la firma degli accordi di pace, a Cartagena, a settembre del 2016. E, a dicembre, dopo aver ricevuto il Nobel per la Pace, l’ex presidente Manuel Santos ha chiesto l’adesione alla Nato, di cui oggi la Colombia è paese associato, l’unico del continente. Quale fosse l’idea di “pace” di Santos, ex ministro della Difesa di Uribe, responsabile dell’aumento delle esecuzioni extragiudiziali durante il suo governo, è emerso dall’indagine del governo bolivariano circa il ruolo da lui avuto nel dare copertura agli attentati con i droni esplosivi contro Maduro, poco prima di lasciare la presidenza a Duque, nell’agosto del 2018. Per ora, l’unico segnale importante verso il Venezuela, è stato l’incontro nello stato Tachira tra il nuovo ministro degli Esteri colombiano, Álvaro Leyva e il suo omologo venezuelano Carlos Faría, in vista della riapertura dei rapporti diplomatici e consolari.

Ai punti 8 e 9, Petro ha messo la protezione del territorio, intendendo principalmente la difesa integrale dell’ambiente, a cominciare dal polmone verde del pianeta, l’Amazzonia. E, al riguardo, ha rivolto al mondo e alle grandi istituzioni internazionali, come l’Fmi, la proposta di impiegare il debito o l’eccedenza del debito per proteggere i beni comuni. Non sull’egoismo e la sopraffazione, ma sulla solidarietà, ha detto Petro, si deve basare la ricostruzione di una società così diseguale – una della più ingiuste al mondo – che fa sopportare ai più deboli il peso delle sue contraddizioni strutturali. Da qui, l’invito a pagare le tasse, in proporzione al reddito, e a mettere al centro la ridistribuzione sociale della ricchezza che, ha detto, è basata sul lavoro e sulla produzione. Di certo, non saranno i discorsi ecumenici a convincere i poteri oligarchici a mollare qualche briciola della torta, né un sistema globale governato dal modello capitalista a recedere dai suoi interessi voraci per concedere un po’ di aria al pianeta. Tuttavia, il messaggio è passato, provocando la stessa aspettativa dell’annuncio di Rafael Correa a proposito del Parco nazionale Yasuni, nell’Amazzonia ecuadoriana: non estrarremo il petrolio che ci serve per migliorare la vita del nostro popolo – aveva detto Correa - se il mondo ricco, compenserà la perdita con donazioni volontarie. E, purtroppo, tutto si era arenato in pochi anni con un nulla di fatto, e lo scontento degli ambientalisti.

Quanto al governo del territorio e alla sovranità, e alla costruzione di “un paese di pace”, auspicato da Petro, la Colombia sta molto peggio dell’Ecuador di Correa: che riuscì a far chiudere la base di Manta nella quale si organizzò il bombardamento dei un accampamento guerrigliero ai confini con la Colombia, il 2 marzo del 2008. Il paese che eredita Petro, è oggi una gigantesca base militare nordamericana, al servizio di un’economia di guerra che ha il suo micidiale correlato nelle politiche di controllo sociale, lautamente finanziate dai grandi think-tank di Washington e di Israele, a cominciare dalla Usaid. Non per niente, all’assunzione d’incarico, gli Usa hanno inviato proprio Samantha Power, oggi a capo dell’Usaid, grande fautrice delle misure coercitive unilaterali, che ha sostenuto e sostiene dietro la maschera di difensora dei diritti umani.

Duque aveva vietato anche l’ingresso alla spada del Libertador Simon Bolivar, ma su questo Petro non ha ceduto. Non ha dimenticato quando il gruppo guerrigliero di cui ha fatto parte, l’M-19, rubò il simbolo dell’indipendenza, nel 1974, dicendo che l’avrebbe restituita solo quando fosse stata restituita “la libertà al popolo”. Di fatto, la spada, inviata nel 1980 a Cuba, venne restituita nel 1991 quando la guerriglia chiuse i battenti e firmò un accordo di pace, in un atto pubblico a cui partecipò lo stesso Petro.

Ha avuto dunque un forte significato simbolico il fatto che Petro non abbia subito l’imposizione dell’uribismo, mandando a prendere la spada di Bolivar e riferendosi a più riprese al progetto del Libertador, di San Martín, Artigas, Sucre e O’Higgins. “Non si tratta di utopia né di romanticismo – ha detto -. È il cammino che ci renderà più forti in questo mondo complesso. Oggi dobbiamo essere più uniti che mai. Come disse Simón Bolívar: ‘L’unione deve salvarci, così come la divisione ci distruggerà se riesce a introdursi fra noi’.

E seppure ha pesato l’assenza del principale dei governi bolivariani del continente, quello di Chavez e Maduro, il Socialismo del secolo XXI non è mai stato così presente nei dieci punti del programma di Petro, molti dei quali la rivoluzione bolivariana ha da gran tempo portato avanti: a partire dalla parità di genere, uno dei punti più forti e promettenti del programma di Petro e Francia Marquez, alla quale va la direzione del ministero per la Parità, appena creato. Il neo-presidente ha persino evocato la possibilità di un’unione civico-militare che, data la natura antipopolare e repressiva della Forza armata colombiana, implicherebbe una vera rivoluzione.

Un progetto che implica un cambio strutturale e non solo di governo. Per questo, altro dato altamente simbolico, come invitati speciali c’erano contadini, pescatori e lavoratrici informali, embrioni del potere popolare.

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