Ex ILVA Taranto, sentenza CEDU. "Per la prima volta noi lavoratori abbiamo dimostrato la violazione dei diritti umani nel siderurgico"

16 Maggio 2022 07:00 Francesco Guadagni

La scorsa settimana la Corte Europea dei diritti dell’Uomo,CEDU, per la seconda volta ha condannato lo Stato italiano, in merito alle violazioni al diritto alla Salute all’ex Ilva di Taranto, ora Acciaierie Italia. C’era già stata una condanna nel 2019, questa volta, però, c’è un aspetto significativo da considerare: il ricorso è partito anche dai lavoratori. La vicenda dell’Ex Ilva di Taranto è lo specchio di un quadro politico e sindacale desolante, criminale e connivente con il disastro e le morti di tumore avvenute in questi anni a Taranto che hanno colpito lavoratori e cittadini. Con Antonio Ferrari, Segretario generale LMO, Lavoratori Metalmeccanici organizzati che aderisce al Sindacato Generale di Classe, SGC, abbiamo affrontato il tema delle bonifiche, della salute degli abitanti di Taranto e dei lavoratori, le prospettive e le mobilitazioni future dopo questa sentenza della CEDU.

L'INTERVISTA

Perché questa sentenza che condanna lo Stato italiano della CEDU, richiamando sostanzialmente quella del 2019, assume un’importanza particolare?

È importante perché è la prima volta che c’è una sentenza dopo un ricorso proveniente direttamente dai lavoratori dell’impianto siderurgico di Taranto. In pratica le sentenze precedenti riguardavano i cittadini di Taranto, questa riguarda direttamente i lavoratori. Per la prima volta siamo riusciti davanti ad una Corte internazionale, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, a dimostrare che sono stati violati i diritti umani all’interno del siderurgico. Un passo in avanti notevole, stiamo parlando del tema della Salute e della morte all’interno dei luoghi di lavoro. Il polo siderurgico di Taranto ha una situazione drammatica e questa sentenza intima allo Stato italiano di riparare e attivare le misure necessarie per rimuovere queste violazioni. Inoltre, la corte ha anche riconosciuto il diritto ad un equo indennizzo. Inoltre due lavoratori che avevano fatto il ricorso, uno dei quali deceduto nel frattempo, hanno avuto anche un ulteriore riconoscimento economico per violazioni particolarmente gravi subite. Una sentenza che non riguarda solo quelli dell’Ex Ilva, ora Acciaierie Italia, ma tutti i lavoratori. Lo Stato italiano si è difeso con forza durante il procedimento, attualmente continuano le violazioni contro i lavoratori e i cittadini di Taranto. Di solito la CEDU accoglie un ricorso su mille, per accogliere il nostro vuol dire che la situazione era abbastanza grave.

C’è, quindi, una sentenza, ma come e quando dovrà essere attuata dallo Stato italiano?

Intanto, stiamo valutando una denuncia come sindacato al Consiglio d’Europa. Essendo state riconosciute ai lavoratori le condizioni inumane e degradanti, la Corte ritiene che si debbano fare dei ricorsi interni, al Tribunale di Taranto, per ottenere gli equi indennizzi. Ci stiamo muovendo per sensibilizzare i lavoratori portandoli a conoscenza della sentenza e raccogliere la loro disponibilità nel caso volessero fare un ricorso per l’indennizzo, su cui la Corte europea ha già dato un indirizzo. Riteniamo urgente una Legge speciale per Taranto. Si sta parlando di chi lavora in condizioni incompatibili con la vita umana. C’è un processo ancora in corso della magistratura italiana. Fatti che dimostrano in che situazione stiamo. Quegli impianti che la magistratura fermò nel 2012, con 13 decreti i governi di destra e di sinistra hanno continuato a farli funzionare senza fare interventi risolutivi. Quindi, le violazioni sono proseguite e proseguono ancora.

Con la Guerra in Ucraina, si parla di ritorno al carbone e mantenimento in funzione delle Acciaierie d’Italia, incluse quelle di Taranto, il Governo Draghi non sembra intenzionato a proseguire la strada del risanamento e delle bonifiche?

Quella dell’ex Ilva di Taranto è diventata anche una telenovela, dove si discute molto e si conclude poco. Ultimamente Draghi, dice che siccome c’è in corso una guerra l’acciaio serve, incrementando addirittura l’uso del carbone e archiviando la modernizzazione del processo produttivo. Nel corso degli incontri al MISE, che ci sono stati a fine marzo sull’apertura di un procedimento di Cassa integrazione, è emersa la necessità, anche secondo il Governo, di arrivare a produrre 6 milioni di tonnellate di acciaio (oggi non se ne producono nemmeno 4 milioni) fino ad arrivare a 8 nel 2025. Intanto, a marzo è stata aperta la Cig per 3 mila lavoratori (2.800 a Taranto), 1600 già lo erano dal 2018 come ex Ilva. In tutto questo si chiede di aumentare la produzione, una contraddizione enorme. Attualmente ci sono 8200 lavoratori nel siderurgico di Taranto, in sostanza l’aumento della produzione di acciaio dovrebbe essere realizzata con circa la metà della forza lavoro.

In effetti, non è una beffa che non si parla nemmeno di assunzioni?

Un mese e mezzo fa, non a caso, tutte le organizzazioni sindacali non hanno firmato il documento di procedura per la Cig in quanto non c’era nessuna prospettiva, né un piano industriale, né l’assorbimento certo dei cassintegrati, tantomeno nuove assunzioni. E’ evidente che questa situazione andrebbe a peggiorare quelle stesse condizioni produttive già condannate dalla sentenza CEDU.

Almeno negli anni scorsi c’era il baratto tra lavoro o salute.

Si parla di riconversione, ma sono parole vuote, non c’è nulla, promesse. Oggi, l’inquinamento non è diminuito. All’interno dell’Ilva ci sono delle centraline per rilevare le polveri non controllabili dagli enti esterni. Le bonifiche di cui si parla non incidono, servono come all’Italsider di Napoli, per mantenere i corsi per i cassintegrati. Le falde sono inquinate, non si può coltivare a chilometri di distanza. Non c’è un partito nel parlamento che si sia impegnato affinché non si producesse in queste condizioni, nonostante la magistratura avesse chiuso gli impianti. Nell’accordo del 2018 si è parlato molto sul ricatto occupazionale nel passaggio ad Arcelor Mittal, ma neanche è garantito più lavoro, c’è sempre più Cig. Siamo di fronte ad una situazione di uno stabilimento non risanabile. Si dovrebbe parlare di un sistema di produzione circolare che a Taranto non esiste proprio. Converrebbe di più spianare tutto, coinvolgendo i lavoratori, formati e impegnati a fare le bonifiche, dando anche un impulso occupazionale aggiuntivo al territorio. Politicamente non c’è nessuna intenzione di fare le bonifiche. Basta vedere quanti soldi sono stati spesi per la cassa integrazione, corsi e le bonifiche che poi in realtà non sono state fatte. Non c’è, però, neanche da parte delle organizzazioni sindacali la volontà di cambiare le cose. Si continuano a chiedere tavoli di discussione al Presidente del Consiglio di turno in cui poi non si decide nulla. Passano gli anni in cassa integrazione, lavoratori provati economicamente, alcuni di loro si sono licenziati con incentivi. Per noi non ci sono cambiamenti perché non ci sono prospettive tecnologie che possono cambiare la natura della produzione dell’acciaio a Taranto. Bisognerebbe fare delle bonifiche sui terreni, sulle falde, ciò nonostante, gli altiforni continuano a lavorare, nonostante le chiusure disposte dalla magistratura, allo stesso modo di prima. La diossina continua a fuoriuscire, il quartiere Tamburi è ancora invaso dalle polveri. Per questo, ribadisco, la sentenza apre una prospettiva ma non risolve il problema. Se questa questione non viene presa in mano dai lavoratori, con la loro lotta, il cambiamento resterà sempre un’illusione.

Sulla vicenda dell’Ilva di Taranto come ne escono politica e sindacati confederali?

I sindacati si sono sempre limitati a chiedere tavoli al Ministero che prevedono tempi lunghi senza nulla di concreto. Noi siamo osteggiati dai sindacati e dalla direzione aziendale perché contestiamo gli accordi in essere, compreso quello del 10 gennaio 2014 per le elezioni delle Rsu che mette il bavaglio ai lavoratori e ai delegati. Siamo stati osteggiati per la nostra richiesta di fermare gli impianti inquinanti, non separando la tutela del lavoro dalla salvaguardia della salute, obiettando “ma qui c’è bisogno di lavorare”. Noi non possiamo accettare di lavorare ammalandoci, morendo, contraendo malattie gravi. La sentenza della Corte Europea è stata sottovalutata dagli altri sindacati. Nell’ultimo sciopero del 6 maggio, il giorno dopo la sentenza della CEDU, i lavoratori quando gliela abbiamo comunicata hanno applaudito, mentre i sindacati sono rimasti in silenzio. Ancora oggi non si sono espressi sulla sentenza. Tra l’altro non hanno più niente da offrire, prima si poteva dire che comunque c’era un posto di lavoro, oggi non c’è più neanche questo e lo ammettono. Per questo il 6 maggio abbiamo fatto un appello a tutti i lavoratori e a tutti i sindacati affinché ci sia una mobilitazione unitaria per la salvaguardia della salute e il diritto al lavoro.

A questo proposito, dopo questa sentenza quali prospettive di mobilitazione?

Dopo quello che ha dichiarato il Governo, con la guerra in corso, noi facciamo appello ai lavoratori e ai sindacati per una mobilitazione permanente davanti alle portinerie. In questo momento storico, i lavoratori devono scendere su un terreno di lotta. Bisogna pretendere una prospettiva chiara, non si deve permettere che questi impianti inquinanti continuino a funzionare, vanno fermati. Il Futuro di Taranto non necessariamente deve essere quello di produrre acciaio in queste condizioni.

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