Conferenza di Monaco: chi guadagnerà dalla corsa all’armamento di Kiev

16 Febbraio 2024 18:00 Fabrizio Poggi

di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

Dopo il vertice a Bruxelles del 15 febbraio dei ministri della guerra UE-NATO, col segretario generale Jens Stoltenberg, in cui si è ufficializzata la corsa al riarmo che, di fatto, sta procedendo da molto tempo, per il 17 febbraio è atteso, alla conferenza sulla sicurezza a Monaco, l’ennesimo show del nazigolpista-capo Vladimir Zelenskij, reduce dalle tappe di questua del 16 febbraio a Parigi e Berlino, dove Zelenskij ha sottoscritto “trattati di sicurezza” con Macron e Scholz che, nei fatti, non impegnano direttamente né Germania né Francia.

L’euforia di guerra NATO-UE è data, come recitano anche gli ambienti di certi “quotidiani comunisti”, dalla «preoccupazione per una Russia ormai in piena “economia di guerra”». E dunque via libera a «nuovi accordi bilaterali con l’Ucraina sulla sicurezza per cercare di far fronte ai tentennamenti Usa», come se non venisse proprio da Washington l’ordine impartito ai satelliti europei di farsi carico degli stanziamenti che la Casa Bianca ha qualche difficoltà a dirottare su Kiev. D’altronde, già al vertice del G7 a Vilnius, lo scorso luglio, era stato deciso che l'Ucraina, invece di una rapida adesione alla NATO, avrebbe ricevuto «impegni di sicurezza a lungo termine» dai singoli Paesi.

Dunque via libera alla gara per il primo della classe negli stanziamenti militari sul PIL, anche per mantenere la promessa di un milione di droni a Kiev: nessuno vuol lasciare alla Polonia la maglia rosa del prossimo primato del 5% e già la si tampina dietro il suo attuale 3,9%.

Ma, il 2% del PIL alla guerra, che ancora ai vertici NATO del 2014 o 2016 sembrava un’enormità per quasi tutti i regimi UE, oggi è ritenuto troppo stretto, nell’impeto europeista della «lotta della civiltà contro l’inciviltà» (Draghi) e Jens Stoltenberg si è dunque sì complimentato con quei diciotto paesi (su 31) che hanno raggiunto o superato l’obiettivo, spronando gli altri a darsi da fare. Anche questo, serve a esorcizzare le osservazioni di chi, come ad esempio The European Conservative, scrive che «Il rapporto preparato per la conferenza di Monaco mostra il cambiamento d’umore dei paesi del G7. Le loro popolazioni non considerano più la Russia quale principale minaccia, mentre sono molto più preoccupati per migrazione, terrorismo, cambiamento climatico e attacchi informatici». Un dato che, in ogni caso, è stato certificato anche a livelli superiori.

Così, in un clima in cui la notizia della morte di Aleksej Naval’nyj è giunta a puntino per permettere a molti di dare aria alla bocca (c’è da scommetterci: qualcuno la presenterà come la vendetta di Mosca per l’attacco ucraino del 14 febbraio al vascello da sbarco “Tsezar Kunikov”, nel golfo crimeano di Simeiz, anticipato da voli di ricognizione di droni NATO “Global Hawk”), Zelenskij chiede ancora soldi e armi per “la crociata” anti russa, per fare dell’Ucraina il “vallo europeo della democrazia”, come declamava anni fa il suo predecessore golpista Petro Porošenko.

Le “bagattelle” in corso in Ucraina (malcontento generalizzato per i siluramenti ai vertici militari; sconfitte sul campo: l’ultima a Avdeevka; malaffari a ogni livello; affamamento e arruolamenti forzati della popolazione) o prossime a venire (sarà curioso leggere come i media liberali, tra meno di un mese, giustificheranno l’annullamento delle presidenziali) e soprattutto il genocidio mediorientale hanno lasciato in secondo piano il fronte ucraino. Tanto più che, appena un anno fa, sempre a Monaco, Zelenskij aveva giurato che il «Golia russo sarà sicuramente sconfitto già quest’anno». Così che, quest’anno, ne ha di terreno da recuperare; non sul piano dell’immagine “democratica”, per carità: su quella, i nazisti di Kiev sono per definizione “europeisti”. Così democratici e europeisti che, osserva Dmitrij Kovalevic su Ukraina.ru, pare arduo evitare cliché apertamente nazisti; ragion per cui, dopo che il comandante della 93° brigata ucraina "Kholodnyj Jar", Pavel Palisa, ha sfoggiato un gallone con il "OstFront" tedesco, il canale Telegram della brigata ha scritto che essa è chiamata a «tracciare un parallelo tra gli eventi del più grande e mortale teatro di operazioni militari della Seconda Guerra Mondiale e l’epoca contemporanea», con il nuovo Drang nach Osten.

D’altronde, a proposito di smanie tardo-wagneriane, è proprio la Germania della coalizione “semaforo” (SPD, Verdi, FDP) che sembra voler riguadagnare posizioni tra i primi della classe NATO, col mettere in programma sempre più massicce produzioni di armi, comprese quelle da destinare alla junta di Kiev. Se ne rallegrano i produttori teutonici: appena il tempo della posa della prima pietra del nuovo stabilimento a Unterlüß, lunedì scorso, che già prima dell'apertura dei mercati azionari di martedì, il prezzo delle azioni Rheinmetall batteva un nuovo record. In quell’occasione, il CEO della società, Armin Papperger, non aveva mancato di elogiare le proficue forniture di armi all'Ucraina come un «risultato storico del nostro governo federale», che ingrassa gli azionisti Rheinmetall.

Riepilogando, ricorda Vincent Cziesla su Unsere Zeit, al Bundestag la CDU ha sostenuto la necessità di triplicare la montagna di debiti per gli armamenti, definita "fondo speciale", stanziando «300 miliardi e non 100, per rendere agguerrita la Bundeswehr». Non da meno la SPD, che chiede lo scorporo delle spese di guerra e difesa civile dal "freno al debito". I principali media liberali tedeschi, scrive Cziesla, hanno fatto prontamente da coro, col pretesto delle “minacce” di Trump sulla crisi del sostegno USA alla NATO. In realtà, già un anno fa, ben prima delle parole di Trump, la SPD aveva parlato al Bundestag di 300 miliardi di spese militari; ma il rimando a Trump, ai cosiddetti "fondi speciali" e allo scorporo delle spese di guerra dal freno all’indebitamento nasconde (male) l’obiettivo reale di drastici tagli sociali. Che come sappiamo, non è certo una particolarità germanica.

Ma non bastano gli stanziamenti: si deve coinvolgere la gente. Così, al simposio della Bundeswehr di gennaio, militari, politici, imprenditori e media sono stati invitati a fungere da «moltiplicatori per accrescere la consapevolezza della società sulla mutata realtà della politica di sicurezza». In quell’occasione, una delle più innocue richieste è stata quella di «autostrade adatte ai corazzati».

E, del resto, nota con sarcasmo Cziesla, oltre a una buona logistica, in caso di guerra è necessario soprattutto un gran numero di persone: non solo militari, ma anche "difesa civile", con polizia, vigili del fuoco, paramedici e tanti, tanti “volontari”. Dunque, Patrick Sensburg, presidente dell'Associazione dei riservisti, chiede che in Germania «tutti i giovani uomini e donne debbano esser richiamati per un servizio obbligatorio di almeno un anno». Ed è atteso per fine marzo il "Operationsplan Deutschland”, col concetto di "difesa globale" che, se approvato, sarà presumibilmente accompagnato da richieste di altri miliardi o dall'introduzione del servizio militare obbligatorio.

Berlino insomma, scrive Arnold Schölzel su Die junge Welt, ambisce a essere leader nella corsa agli armamenti; tant’è che il 15 febbraio, per il vertice di Bruxelles, il ministro della guerra Boris Pistorius (SPD) ha annunciato che, una volta raggiunto l'obiettivo del 2%, l'ambizione della Germania deve essere quella di essere la «spina dorsale convenzionale», insieme ad altri paesi. Pistorius ha aggiunto poi altra musica per le orecchie degli azionisti di Rheinmetall: il sito web del ministero riporta che «La Russia è la più grande minaccia nell'area euro-atlantica»; dunque, si deve fare il possibile per sostenere Kiev, e la Germania prevede di fornire nel 2024 alla junta «tre o quattro volte» più munizioni d’artiglieria rispetto al 2023. Pistorius ha proclamato: «In definitiva, la guerra in Ucraina si deciderà anche alle catene di montaggio nei Paesi produttori».

In ogni caso, se non vi si deciderà, sarà proprio nelle tasche degli azionisti del complesso militare-industriale mondiale che finiranno i profitti dalla sua prosecuzione voluta a Washington e Bruxelles.

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