Quella ferita insanabile. Il passato nazista con cui la Germania si confronta

di Pietro Polieri

Sapere che un segmento rilevante della propria storia stato-nazionale è stato costellato da crimini ed efferatezze indicibli – eppur necessariamente da dire! – su una popolazione inerme, come quella ebraica (e non solo), per pura scelta politica, quella del ‘proprio’ governo, condivisa dai più, negli atti volontari come nell’opzione del silenzio connivente, non è un’esperienza piacevole. Anzi è traumatica. Ma è quella che non ha potuto evitare di affrontare la Germania post-bellica rispetto al suo passato nazista, che era lì, di fronte ai figli, ai nipoti e ai pronipoti di quei tedeschi assassini o solamente compartecipi, come osservatori passivi o delatori operosi o entusiasti convinti sostenitori del governo hitleriano, i quali hanno pensato, in quel modo, di realizzare il sogno di rigenerazione del Reich a seguito della sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale.

Ciò che risulta ancora del tutto incomprensibile – di una vicenda che ormai è stata scandagliata pluridisciplinarmente nei modi più approfonditi e trasversali, ma che sicuramente va ancora studiata e analizzata in ordine a molteplici aspetti meritevoli di essere chiariti – è come si sia determinata in modo apparentemente naturale e plastico un’evoluzione progressiva e indolore della nobile e raffinata società tedesca in fucina di morte seriale, in fabbrica dello sterminio, in associazione totale/totalitaria a delinquere nella peggiore forma (non-)immaginabile, senza che questo sollevasse per nulla una questione morale, senza cioè che nessuno sentisse l’urgenza di porsi la domanda se fosse minimamente in contrasto con le norme più elementari e fondamentali dell’etica e della convivenza civile brutalizzare e annichilire la vita altrui, nella fattispecie quella di una parte della popolazione tedesca, sottrarre a essa i diritti fondamentali della persona umana e quelli civili, estrometterla dal consesso sociale per (dis-)ragioni ontologiche infondate e raccapriccianti. Al contrario ciò cui si è assistito nel tempo è stata l’emergenza progressiva di narrazioni politiche, giuridiche, sociali, storiche ed economiche, e quindi anche ‘scientifiche’/‘accademiche’, a sostegno addirittura della ‘necessità’ di eliminare la componente ebraica dalla nazione tedesca, al fine di recuperare quell’autenticità e purezza etnica che, come ben chiarito dagli studi di antropologia culturale, nessun popolo ha mai però posseduto e mai potrà rivendicare in futuro in quanto inesistente e impossibile a darsi. L’affioramento dell’interrogativo su tale trasformazione ‘bestiale’ della esemplare e culturalmente pregiata società tedesca e la preoccupazione che forme affini al nazismo potessero reinsediarsi in essa successivamente al termine del secondo conflitto mondiale hanno condotto alla formazione in Germania, dopo il 1945, di un dibattito dalle diverse e non sempre trasparenti tinte sul rapporto tra lo Stato tedesco e l’hitlerismo, il nazismo, il totalitarismo.

A farsi carico della ricostruzione di tale architettura storico-contenutistica è il volume dal titolo La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo (Laterza, Roma-Bari 2022, 180 pp., euro 14), elaborato da Tommaso Speccher, ricercatore presso strutture culturali di rilievo a Berlino come il Museo Ebraico, la Topografia del Terrore e la Casa della Conferenza di Wannsee. Il titolo, per certi versi, non è capace di rimandare immediatamente a un senso unico che il lettore dovrebbe captare, ma sembra più che altro voler provocare una sorta di ‘disagio ermeneutico’, che fa leva proprio sull’imbarazzo che un argomento del genere, ‘fare i conti col nazismo’ o comunque con i fascismi/totalitarismi di casa propria, ordinariamente pare generare. Cosa vorrebbe dire Speccher: che, mentre la Germania ha preso il coraggio a due mani e ha affrontato in modo sistematico e proficuo le proprie ombre storiche, altri Stati non ci abbiano nemmeno provato o non vi siano riusciti compiutamente, ovvero scientificamente, come per esempio l’Italia col suo fascismo? O che, proprio perché la Germania s’è misurata con il suo più nero passato, di fatto l’abbia storicizzato, incubato e superato una volta per tutte, mentre altri, in assenza di tale confronto, stiano consentendo implicitamente agli spettri oscuri di una in fondo recente porzione storica della propria nazione di re-insinuarsi tentacolarmente e camaleonticamente negli interstizi sociali più sensibili e nostalgici?

E allora, una volta che si decida di leggere la quarta di coperta e poi di varcare la soglia della copertina, si comprende che quel titolo sia proprio un invito a entrare nel vivo della trattazione articolata dallo studioso, nella quale si fa strada l’ipotesi per cui, per quanto certamente i tedeschi, dopo la ‘transizione di Norimberga’, la fase dei processi ai nazisti e delle riparazioni dei crimini di guerra, abbiano deciso di esaminare con lucidità e razionalità, anche se non senza disagio e un certo senso di vergogna, il lungo periodo nazista attraverso soprattutto dibattiti pubblici e analisi accademiche, oltre che politiche, il risultato non è certo stato tra i più esaltanti, visto che le forme di rielaborazione discorsiva hanno peccato in molti casi di precarietà, mostrando ancora una volta malessere e fastidio, conseguentemente generando effetti di oblio temporaneo o di parziale rimozione.

In altri casi, quelli più lodevoli, al contrario l’esito, al di là dell’onta e del disonore prodottosi nelle giovani generazioni di ricercatori attenti e scrupolosi, è stato di una forte assunzione di coscienza della pesante eredità ricevuta dal passato e della esigenza, su tali basi conoscitive, di una assunzione di responsabilità, storica e politica, per il futuro, non solo tedesco. Speccher, inoltre, non manca di sottolineare, oltre all’accelerazione del processo di multiforme coscientizzazione tedesca della fase nazista della propria storia a partire dal crollo del muro di Berlino, i numerosi ostacoli opposti all’operatività contemporanea della memoria collettiva tedesca rispetto all’hitlerismo, viste le tante, troppe ancora attive relazioni con un sottobosco, contenutistico e antropologico, pseudo- e para-politico ‘nero’, frutto di un approccio ultra-reazionario e violento alla realtà, soprattutto economica contemporanea, di componenti sociali tedesche, tanto marginali e disagiate quanto collocate in una fascia sociale media prossima però a forme di neo-povertà, mai prima sperimentate, e quindi ‘arrabbiata’.

Il testo di Speccher, pur nella fiducia accordata alla nuova messe di storici e politici impegnati nel recupero autentico di una parte della storia tedesca di cui non dovere andare assolutamente fieri e da raccontare, però, con l’animo dei non direttamente coinvolti, ma comunque degli eredi critici e responsabili, sostiene, con fermezza, purtuttavia, che la battaglia tedesca per il recupero serio e trasparente della propria memoria collettiva ‘nazista’ è un processo complesso, irto di intralci e freni, segnato da enormi fratture intergenerazionali e ancora capace di generare turbamenti e titubanze, se è vero che il nazismo storico risulta essere per i tedeschi odierni la dimensione su cui ancora si forgia la loro identità, sia per contrasto e negazione sia, al contrario, per indebito nostalgico riferimento.

Sarebbe utile, grazie allo sprone del volume di Speccher, al fine di comprendere ancora più radicalmente e sostanzialmente le ragioni di una memoria collettiva tedesca che viaggia ‘col freno tirato’, non solo, come il ricercatore suggerisce, guardare alle tante ‘Operazioni Odessa’ che colpevolmente l’Occidente liberatore ha messo in atto per salvaguardare paradossalmente numerosi alti dirigenti, militanti e medici nazisti proprio mentre condannava il nazismo, ma riprendere i molteplici studi sul rapporto tra memoria sociale tedesca e la configurazione dell’identità della Germania post-bellica, ovvero il lavoro di Alexander e Margarete Mitscherlich intitolato Germania senza lutto. Psicoanalisi del postnazismo, o quello di Karl Jaspers, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, entrambi pubblicati negli anni Sessanta. O lo studio collettaneo, pubblicato in Italia dalla Einaudi, dal titolo Germania: un passato che non passa, che vide coinvolti nella scrittura intellettuali del calibro di Nolte, Habermas, Fest, Broszat, Hillgruber, solo per citarne alcuni tra i più noti. Ma, forse, la ragione che impedisce maggiormente il lavoro a pieno regime della macchina della memoria tedesca in ordine al recupero della propria storia nazista è la consapevolezza, invadente e devastante, che i tedeschi, non solo e non tanto i nazisti, non solo le SS, non solo la Gestapo e tante altre declinazioni aberranti ‘eccezionali’ del nazionalsocialismo, ma anche e soprattutto i tedeschi ‘comuni’, ‘ordinari’, ‘civili’ abbiano contribuito de facto, attivamente o passivamente, e comunque concretamente, alla realizzazione delle peggiori nefandezze perpetrate indiscriminatamente dal regime hitleriano nei confronti soprattutto di ebrei e anche di altre categorie sociali e/o politiche. Insomma, non solo La Germania sapeva, come racconta il titolo di una ricerca di Eric A. Johnson e Karl-Heinz Reuband del 2005 (in Italia tradotto nel 2008), ma era complessivamente complice, come società considerata nella sua totalità, della violenza nazista, come affermato a chiare lettere dallo studio intramontabile degli anni Novanta di Daniel Jonah Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, che faceva da eco a Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia di Christopher R. Browning e al più remoto Come si diventa nazisti di William Sheridan Allen, e che anticipava – forse dandone proprio l’abbrivio, e, come nel caso di Browning, spostando l’asse geografico sulla Polonia – lo studio della vicenda drammatica del massacro della comunità ebraica della cittadina polacca di Jedwabne da parte della popolazione locale non giudaica, realizzato da Jan T. Gross, intento, come Goldhagen, a comprendere i meccanismi sociali e psicologico-collettivi della trasformazione di persone fino al giorno prima del tutto pacifiche e normali, e sicuramente rispettose della persona umana, in individui assetati di sangue, al punto da affogare donne con i figli in braccio, decapitare ragazzine, strangolare e scannare probabilmente amici o conoscenti di sempre. La lettura contestuale delle tesi soprattutto di Goldhagen – insieme a quella dell’indagine di Gross, aggiornata di recente da Anna Bikont in Il crimine e il silenzio. Jedwabne 1941. Un massacro in cerca di verità –, ha il merito di consentire al volume di Speccher di porre il problema del ‘fare i conti con il nazismo’ – o con il fascismo o il totalitarismo che si voglia – in un senso molto più ampio, quello in virtù del quale la vigile osservazione della genesi di tali fenomeni oppressivi, violenti e discriminatori non deve essere orientata solamente ad aree sociali o politiche prossime, per tradizione o natura, a quelle distorte ‘storiche’ dimensioni ideologiche, ma a tutta la cosiddetta ‘normale’ società odierna, foss’anche la più democratica, che in un batter di ciglia si può riscoprire, nella sua totalità, pur con esigue eccezioni, pronta a liberare la sua forza ‘animale’, distruttiva e annientativa, in virtù dell’affermazione di un mero cambio di passo e/o di regime politico o di governo, dell’affermazione di una emergenza di qualsiasi tipo, dello stabilimento di un nuovo ordine morale spacciato, al momento, come quello da perseguire, anche se contrario a ogni forma di dignità umana.

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