«La sinistra deve spegnere i telefonini e vivere la strada» Intervista al filosofo Francesco Postorino


Riceviamo e pubblichiamo questa bell'intervista di Michele Lasala al filosofo e saggista Francesco Pastorino. Si tratta di un ottimo contributo al dibattito politico attuale intorno ad una sinistra distrutta nel recente passato dall'adulazione del capitale e della globalizzazione.


di Michele Lasala



Nel suo ultimo libro, Croce e l’ansia di un’altra città (pref. di R. Cubeddu, Mimesis 2017), dedica ampio spazio ad alcuni filosofi legati al Partito d’Azione, i quali hanno riflettuto con originalità su concetti come libertà, democrazia, giustizia. Il loro pensiero potrebbe ancor oggi − benché lo scenario italiano e mondiale sia radicalmente cambiato rispetto a quello della prima metà del Novecento − offrirci valide alternative al sistema vigente?


La grandezza della riflessione filosofica, etica e politica di questi uomini risiede nella capacità di aver vissuto con intensità le problematiche del loro tempo, ma con un occhio rivolto all’eterno. La vocazione anti-fascista che li accomunava, pagata a caro prezzo, non ha nulla a che vedere con le sceneggiate postmoderne di alcuni progressisti contemporanei: politici da selfie e maître à penser che stringono il pugno nella loro bacheca facebook, che firmano manifesti hard posizionando il loro nome in prima fila, e sono gli stessi che scrivono libri «storiografici» su Gramsci e Gobetti senza aver la più minima idea del vigore etico che si respirava con pathos nel triste ventennio italiano.
La cultura azionista degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso si è impegnata a costruire un’offerta ideologica di ampio respiro. Mentre i neoidealisti di prima generazione (Croce e Gentile) esaltavano lo Spirito della storia con l’arma della dialettica hegeliana e la scuola nichilista urlava la morte di dio, gli azionisti mettevano al centro la dimensione spirituale dell’uomo. A Calogero e de Ruggiero, infatti, importava solo del «tu» o del «lui», ovvero di un innocuo strumento gettato in una catena di montaggio che suonava l’ora della vergogna nei Tempi moderni del capitale. Il «lui» andava riscattato. Occorreva che una grigia esistenza diventasse un volto, un nome, una biografia, ed era indispensabile che si realizzassero i principi dell’89. Oltre la carta dei diritti liberali esposti nel cielo dell’ipocrisia, bisognava scendere sulla terra e coltivare la speranza illuminista, l’ingrediente socialista e la trama della fratellanza nello spettacolo, direbbe Capitini, dell’«uno-tutti». I nostri eroi, oggi, lo avrebbero detto con più enfasi.



Il Presidente del Senato Pietro Grasso parla di libertà e uguaglianza per il suo nuovo movimento politico, come se questi due princìpi dovessero, assieme, garantire la piena realizzazione del cittadino; ma non sarebbe più giusto – lo dico in maniera provocatoria − parlare di libertà e diversità e denominare il partito “Liberi e diversi”? L’uguaglianza, infatti, pare appiattire la complessità e la varietà delle biografie.


Nell’epoca della sconfitta sociale, dove i giovani non sanno più cosa inventarsi per assaporare un pezzetto di dignità, per guardare la propria ragazza con gli occhi dell’innocenza perduta e dirle che «andrà tutto bene!», per guardare se stessi con quel briciolo di entusiasmo senza il quale si è morti dentro, confesso che non mi appassiona il tema della «diversità». In questo momento, parafrasando Owen, mi viene in mente l’«eterna reciprocità del pianto», quel sentire che travalica ogni fisiologica diversità e che la contro-cultura cerca in tutti i modi di rimuovere in nome dell’indifferenza. «Liberi e uguali» è una formula che va benissimo. Ma, direbbe Bobbio, chi la applica? Chi si inginocchia davanti a questi valori universali? Chi è disposto a farsi da parte per regalare il sogno? Chi è pronto a mettersi in prima fila per una politica di resistenza e di rilancio? Chi guarda la luna e al contempo asciuga le lacrime della precarietà? Chi vuole sul serio sperimentare la libertà e la giustizia sociale per ogni uomo venuto alla Terra? Chi è pronto a bruciare la notte nichilista e inventare l’alba? Chi è disposto ad abbracciare con empatia, a fare sacrifici insieme, ma anche a gioire insieme, fuori dalle telecamere oscene di un Vespa o di altre veline? Chi è disposto a mantenere in vita la tensione, la domanda di verità, o quella che nel mio volume definisco l’«ansia di un’altra città»? Chi vuole rivivere l’ansia che legava i partigiani di ogni epoca e di ogni luogo, quel bisogno inesauribile di cambiamento lanciato alla ricerca del «lui»?



Non molto tempo fa, nella città pugliese di Corato, assistevo a un incontro con Gianni Vattimo sul tema della libertà. In quella occasione, Vattimo disse una frase che mi colpì. Si chiese perché oggi sentiamo la necessità di parlare di libertà, e rispose dicendo che lo facciamo perché essa è minacciata. E in effetti è così, come lei mi sta confermando. Quale potrebbe essere il modo più giusto per arginare tale pericolo, in un mondo come il nostro, dove il pubblico e il privato si confondono, e dove il concetto stesso di “libertà” appare così fumoso?

Direi solo sciocchezze se mi pronunciassi in modo «empirico» o programmatico. Non sono un politico. Quel che mi interessa è che una degna formazione di sinistra, in Italia e nel mondo, reintroduca quel brivido della giustizia e quel sentimento pedagogico che costituivano la grammatica azionista. Bisogna scendere nella profondità dell’altro. Il «tu», prima che diventi tale, è un «lui» in attesa di risposte. Il «lui» è un’immagine confusa e parallela, ed è un al di là rispetto alle nostre abitudini. Il «lui» non ha un nome. È un perfetto nessuno che si accavalla nei paesaggi nichilisti del duemila. Questo dato parlante deve trasformarsi in un soggetto sui iuris. Nelle nostre autostrade incrociamo uomini neri, il meretricio, disgraziati, drogati, malati e anime fragili. Per molto tempo si son voltate le spalle alle biografie spezzate; sono troppi anni che la sentenza della morte di dio miete vittime attraverso i suoi caporali. Ci sono parecchi «riformisti» che tergiversano su larga scala e giocano al confine tra un bieco conservatorismo e l’inettitudine. Le sinistre europee continuano a inseguire il principio delle risorse scarse, incuranti del disagio globale. Troppi tecnocrati, inoltre, hanno l’algebra e i numeri nel cuore e rinviano gli appuntamenti con l’emancipazione. La libertà e la giustizia si fanno ora, vivendo la strada, spegnendo i telefonini, sedendo su una panchina con i volti, per poi presentarsi nei luoghi del potere con la divisa sporca del proletario, con la dedizione di un giovane che non deve salutare i Monti come Lucia. Il müssen (la necessità naturale) non può governare la realtà; il Sollen kantiano, al contrario, può e deve illuminare in chiave trascendentale un percorso di vita degno di essere vissuto.



Nel 1955 Bobbio scrisse un libro dal titolo Politica e cultura, mettendo in evidenza l’importanza che il fattore culturale ha nella dimensione del politico. E già Carlo Rosselli, ai tempi in cui andava scrivendo su «La Rivoluzione Liberale» di Gobetti, era convinto che l’educazione alla giustizia e alla libertà fosse un elemento indispensabile per il cittadino, perché così l’individuo poteva prender parte con coscienza alla vita pubblica e vivere una vita più dignitosa. Come mai oggi politica e cultura non riescono a dialogare fra loro?

Questa è la stagione dei monologhi e delle onnipotenze. Il dialogo con la verità diventa il «si dice» heideggeriano, una moda sofista che bussa ai cancelli del nulla. Irrompe il chiacchiericcio e guasta ogni cosa. Vengono buttati lì, nella pornografia dei social, temi che meritano profonda discussione. Ognuno rivendica il suo quarto d’ora di gloria. Quindi accade che il politico vuole fare per conto suo e l’intellettuale, ignorando la dimensione complessa dell’agire pubblico, crede di avere la bacchetta magica e lancia sermoni nei vari studi televisivi, sempre più dannosi e inutili. La politica e la cultura, cioè l’azione e il pensiero, devono tornare a parlarsi. Tutto dipende se si è in buona fede, se si pensa non «agli interessi del Paese», come si dice spesso con ipocrisia istituzionale, ma al volto dell’uomo.


Il lavoro è la dimensione in cui l’individuo costruisce la sua identità. Ma, come giustamente si diceva prima, può anche essere il luogo dello sfruttamento e perciò della perdita della dignità. Cosa si deve intendere per “persona”?

Bisognerebbe essere in due per rispondere. Occorre ancora una volta coinvolgere il «tu». Quando decido di tuffarmi con spregiudicatezza nell’altro, ho un presentimento di verità, il mio sguardo parziale ottiene una chiarificazione in più. Il postmoderno che ci perseguita può essere respinto solo se annulliamo il virtuale globalizzante e riabilitiamo laicamente il «dover essere» o il sovrasensibile; solo se rinviamo al «noumeno», quell’essenza da svelare con calma. Il non autentico non può dettar legge, urge recuperare il gusto dell’autentico, l’incontrovertibile, il silenzio che parla, quel primo mattino che, per dirla con Carlo Michelstaedter, deve tradursi in «persuasione». La sinistra − prima delle strategie, dei capricci, dei salotti, delle feste in piazza, delle nomenclature o di una nuova configurazione partitica − deve focalizzare l’attenzione sul vecchio sogno azionista e applicarlo adesso.

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