Venezuela, quando la destra ci mette la faccia



di Geraldina Colotti

Che l'opposizione venezuelana traboccasse di fini intellettuali, portatori di un grande progetto di paese, impedito solo dalla presenza di quei bruti dei chavisti, era chiaro da tempo. Se n'erano accorti in tanti, soprattutto a Washington e a Miami, dove la raffinatezza ha raggiunto vette insospettabili con l'arrivo di Trump alla presidenza. Il giallo del suo famigerato ciuffo, infatti, ha trovato immediatamente posto tra quello delle bandiere a testa in giù, esibite con il medesimo stile dalla destra venezuelana.


Ma già la vecchia Europa aveva dato il suo viatico, attribuendo il premio Sakharov al giovane Lorent Saleh. Un incontestabile difensore della libertà di pensiero, sempre ritratto sotto svastiche e quadri del grande “libertador” Adolfo Hitler. Un ragazzo di ardenti ideali, con i quali avrebbe voluto far bruciare intere discoteche e per questo messo in carcere dal brutale dittatore Maduro, ma poi liberato grazie alla pressione della comunità internazionale...


Anche la comunità scientifica (quella, beninteso, che ha più fiuto nel rilevare le novità che precedono cambiamenti epocali) era andata in fibrillazione durante le civilissime manifestazioni dell'opposizione venezuelana: per via di una promettente invenzione che avrebbe potuto rivoluzionare il mercato delle essenze, riuscendo a scalzare financo quello del pesce. Grazie a un duro lavoro di ricerca nei gabinetti delle principali scuole private, giovani ardimentosi dell'opposizione venezuelana avevano collezionato la materia e messo in circolazione una nuova fragranza, testandola con metodi esplosivi: la puputov.


Un esperimento che aveva ispirato artisti e designer, e riscosso l'immediato interesse di altri settori scientifici, che hanno potuto constatare il suo deflagrante potenziale. Intanto, usata in un paese caraibico dove il caldo ha propagato facilmente i frutti di quella “bomba di civiltà”, la puputov ha notevolmente sveltito il problema del traffico e dell'affollamento cittadino, seppure aumentando quello degli ospedali. E poi, su più larga scala, ha suggerito soluzioni per risolvere il preoccupante incremento demografico che, com'è noto, è prodotto principalmente da quei selvaggi dei chavisti incapaci di praticare la “selezione naturale” nei propri settori.


In fibrillazione anche semiologi, linguisti e storici revisionisti, che da anni cercavano un concetto che definisse in modo più consono la scoperta finora attribuita al sovietico Molotov, e ora invece finalmente assunta dal campo dei buoni, che ha indicato al mondo il cammino della coprocultura.


Ma il vertice della post-modernità – quella modernità dei post che parte dal basso, si diffonde nell'aria e si trasforma in nube per confluire nel virtuale – la destra venezuelana l'ha raggiunto adesso con il suo “governo di transizione”. Un'emanazione diretta di quel modello puputov che racchiude “l'essenza” della proposta antichavista. Qualche problema si è creato durante i primi “cabildos abiertos”, per quei convenuti non ancora avvezzi ad apprezzare l'essenza del programma. Ma per questo è stato scelto Guaidó, un “presidente” adatto. Uno che vanta un curriculum di tutto rispetto e che, come ha mostrato durante le guarimbas del 2017 esponendo ai soldati il meglio di sé, quando il momento storico lo richiede, è disposto a metterci “la faccia”.

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