Il Circo cubano a Roma. Musiche, bandiere e acrobazie nei sessant'anni della rivoluzione



di Geraldina Colotti

Il tendone allestito all'Euro è stracolmo di pubblico e bandiere. Tutti trattengono il fiato assistendo alle acrobazie degli atleti, alle piroette che armonizzano il gioco di luci. Poi, adulti e bambini scattano in piedi. Un lungo applauso libera la tensione, e subito riprende, al ritmo della musica caraibica, accorata o travolgente, che mette in scena un balletto di adulti e bambini. Anche a Roma va in scena il Circo cubano e per un'occasione particolare: i primi sessant'anni della rivoluzione.


Un miracolo di resistenza, in un'isola che ha saputo proiettare nel nuovo secolo speranze concrete di una seconda indipendenza per il continente latinoamericano. Un piccolo miracolo è visibile anche in questo contesto, osservando il variegato pubblico degli invitati: composto sia da coloro che, con vari accenti, hanno sostenuto tutte le battaglie di Cuba, sia da chi ha cercato di sospingere quelle battaglie nelle stesse sacche in cui ha finito per arenarsi una certa sinistra italiana, convinta che non vi sia altro cammino da quello del capitalismo. Un campo che vuole leggere nel nuovo corso di Cuba il trionfo della proprietà privata e del “dio mercato”, ovvero una decisa inversione di marcia rispetto agli ideali del socialismo e alle conquiste fin qui realizzate.


Ma il discorso pronunciato dall'ambasciatore di Cuba in Italia, José Carlos Rodriguez Ruiz, ha frustrato una volta di più quelle previsioni. Una sintesi di grande levatura, capace di coniugare al presente i 150 anni di battaglia per l'indipendenza (e di “incessante costruzione della sovranità nazionale”) con i primi 60 anni di rivoluzione cubana. Anni trascorsi sotto la morsa di un feroce bloqueo economico, quanto mai vigente.


Il 24 febbraio, a Cuba si commemora il “Grido di Baire”, la rivolta organizzata simultaneamente in 35 località dal leader indipendentista José Marti, nel 1895. In quello stesso giorno, quest'anno, nell'isola caraibica si svolgerà il referendum popolare per ratificare la riforma costituzionale, già discussa in modo capillare in tutto il paese. Un testo che non prevede alcuna abiura rispetto ai fondamenti politici del sistema cubano – il socialismo e il Partito - ma che, su quei cardini, intende innervare un quadro normativo più consono alla realtà economica, politica e sociale del paese e a quella internazionale.


La prima costituzione fu approvata a Cuba con il referendum del 1976. Il nuovo testo che sarà votato a febbraio, per l'ambasciatore Ruiz presenta aspetti molto avanzati “in molti campi, per esempio quello dei diritti umani e sociali e dell'ambiente. Risponde non solo alle attuali necessità di Cuba, ma anche alla preoccupazione per il futuro, che anima tutti i nostri sforzi”. Cuba manterrà orgogliosamente il livello delle conquiste sociali, raggiunto con poche risorse e tanti sacrifici, e riconosciuto a livello internazionale. L'ambasciatore ne ha elencate alcune: la sconfitta della fame e dell'analfabetismo ormai da molti anni; la gratuità della salute e dell'istruzione, che sono pubbliche e di qualità; il ruolo delle donne, fondamentale fin dall'inizio della rivoluzione in tutti i settori della vita lavorativa, politica e scientifica. Le donne – ha ricordato Rodriguez Ruiz – rappresentano quasi il 49% dei deputati dell'Assemblea Nazionale e il 51% dei componenti i governi provinciali.


Cuba continuerà a perseguire la sua politica estera di pace con giustizia sociale, sia nelle alleanze solidali all'interno del continente latinoamericano, che a livello internazionale, inviando medici e insegnanti, senza deviare dal cammino intrapreso. “Siamo idealisti, ma non inguaribili romantici – ha affermato ancora l'ambasciatore - Ci siamo forgiati nella resistenza e nella battaglia quotidiana. Andremo avanti, per il bene dei cubani e per quello del mondo. Cuba offre pace e comprensione, offre rispetto ed esige rispetto.Un principio giusto dal fondo di una caverna – diceva José Marti – è più potente di un esercito”.


Dalle file in fondo, è partito allora uno slogan degli anni '70: “Il proletariano non ha nazione. Internazionalismo, rivoluzione”.

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